La voglia di riscatto dietro "La febbre del sabato sera"

La voglia di riscatto dietro "La febbre del sabato sera"
di Luca BANDIRALI
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Martedì 4 Luglio 2017, 14:13
Quarant’anni fa esplodeva in tutto il mondo “La febbre del sabato sera”, film che creò uno stile per i ragazzi di periferia, da Brooklyn a Quarto Oggiaro. La ragione profonda di quel successo planetario fu proprio questa. Non era una storia metropolitana, non celebrava la vita notturna dei locali dei ricchi e degli arrampicatori sociali “uptown”. Nello stesso anno, il 1977, apriva sulla Settima il celebre Studio 54, il club dei divi e degli eccessi, ma “La febbre del sabato sera” si svolgeva in una modesta discoteca per ragazzi dei quartieri bassi. Il posto aveva un nome altisonante, “2001 Odyssey”, ma il massimo che offriva a una clientela di bocca buona era un pavimento con le luci colorate; e per diventare il re di questa bettola, il protagonista Tony Manero doveva sudare le proverbiali sette camicie, provare ossessivamente coreografie, pur continuando a lavorare in una ferramenta.

La sceneggiatura del film era tratta da un finto reportage del giornalista rock Nick Cohn che, giunto da poco negli USA dall’Inghilterra, aveva rifilato al New York Magazine una storia ambientata a Bay Ridge, sobborgo di Brooklyn, e intitolata “I riti tribali del nuovo sabato sera”. Quello che stava accadendo era molto semplice: lo spettacolo dal vivo era stato sostituito in pochi anni dalla musica riprodotta da un selezionatore che veniva chiamato “disc jockey”, termine già in uso nel circuito radiofonico. Questi selezionatori di musica cominciarono a utilizzare due giradischi per creare una continuità musicale da un brano all’altro, il cosiddetto “mix”. I brani che mettevano erano tratti dal repertorio della musica afroamericana più ritmata, soul, rhythm and blues, funk; utilizzando le cuffie in preascolto, i DJ potevano far partire il brano successivo a tempo con il precedente. Fu una rivoluzione vera e propria, che influenzò fortemente la produzione discografica: nasceva la disco music, di cui “La febbre del sabato sera” fu un manifesto parziale ma genuino.

Certamente la musica è il fulcro estetico del film, e il fatto curioso è che le straordinarie tracce dei Bee Gees arrivarono a riprese ampiamente terminate: John Travolta usava come musica di scena brani di Stevie Wonder e Boz Scaggs; al montaggio si misero a tempo i passi di Manero e della sua partner con “Night Fever” e “Stayin’ Alive”. Questa musica divenne estremamente popolare, accessibile a tutti ed esemplificativa del concetto di disco music, anche se i Bee Gees venivano da un genere musicale molto differente.

La forza del film è però, come dicevamo, più profonda: nella visione dello sceneggiatore Norman Wexler (l’autore di “Serpico”), si trattava di pura e semplice lotta di classe. Il proletariato della periferia che non vedrà mai il centro, non trionferà a Manhattan, rotolerà giù dal ponte di Verrazano, questa è la gente del sabato sera. Poveri cafoni che non vogliono essere presi in giro, ma vivere come tutti gli altri. La disco music era uno strumento di autoaffermazione di una parte della società che non poteva identificarsi con il rock complicato della metà degli anni Settanta, non poteva coglierne i riferimenti; né poteva aderire al punk, che aveva una dimensione metropolitana molto marcata.

La disco, tra l’altro, era uno strumento di espressione del corpo, un modo per avvicinarsi agli altri, per esistere come persone, almeno per qualche ora. Il film catturò tutto questo: John Badham lo girò come un videoclip, John Travolta lo interpretò come il ragazzo del New Jersey che era stato prima della improvvisa fama televisiva. Poi inopinatamente la disco music diventò sinonimo di effimero in senso deleterio, e anche nelle città di provincia la discoteca si trasformò in punto di riferimento per la piccola borghesia: i cafoni erano stati respinti per l’ennesima volta, e la loro musica fu bollata per sempre con un marchio di infamia.

Rivedere oggi “La febbre del sabato sera”, nella versione restaurata che in Italia è stata proposta dalla prestigiosa rassegna bolognese “Cinema Ritrovato”, è un’occasione per riscoprire un film che fu un fenomeno di costume e per valutarlo sotto altri aspetti: l’eterna storia della marginalità senza un vero riscatto, il primo vagito di una sottocultura che morì dopo aver mosso i primi passi, ma anche un grande film che anticipava l’estetica cinematografica degli anni Ottanta.
 
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