Le armi, l’emergenza e la difesa: la fortuna di avere ancora un Senato

Il Parlamento
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di Roberto TANISI
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Lunedì 8 Maggio 2017, 18:09
“Non possiamo armare i cittadini. La sicurezza non è avere più armi in giro”. Così il Ministro della Giustizia Orlando all’indomani delle polemiche scatenate dalla approvazione, da parte di un ramo del Parlamento, del DDL di modifica della legittima difesa. Difficile non condividere tali considerazioni, degne di Monsignor de La Palisse. Del resto basta guardare ad un Paese – gli Stati Uniti – ossessionato dalla sicurezza, dove le armi possono essere facilmente acquistate in uno store o attraverso internet, per rendersi conto di come il maggior possesso di armi non solo non si traduca in maggior sicurezza per i cittadini, ma, addirittura, sia causa di una persistente carneficina, che qualche anno fa aveva indotto lo stesso Presidente Obama ad esprimersi per una ridefinizione della normativa, senza, tuttavia, riuscire a fare nulla di concreto, per un fatto culturale ma anche a causa della c.d. lobby delle armi, potentissima da quelle parti (figuriamoci oggi con la Presidenza Trump!). Viene allora da chiedersi perché è stato approvato un testo di legge di cui nessuno avvertiva la necessità, se, addirittura, un esponente di primissimo piano come Orlando, Ministro della Giustizia, ha manifestato senza mezzi termini la sua contrarietà e se il maggior partito di governo, in tempi non tanto remoti, aveva sempre stigmatizzato negativamente i vari pacchetti-sicurezza (che, immancabilmente, venivano varati ad ogni estate), evidenziando come essi fossero frutto essenzialmente di emozioni (e paure) indotte, piuttosto che giustificati da vere esigenze di sicurezza. Del resto è noto che, ormai da molti anni, alcune tipologie di reati (furti, rapine, omicidi, solo per citarne alcuni) sono in costante calo, mentre quella che è in aumento è la “percezione dell’insicurezza”, veicolata dai media in riferimento a specifici e clamorosi fatti di sangue.

Peraltro l’esimente della legittima difesa era già stata modificata nel 2006, con l’introduzione della c.d. “legittima difesa domiciliare”, che aveva rafforzato il diritto all’autotutela in ufficio, negozio o altro domicilio privato. Legittimo pensare, allora che questo tentativo di riforma sia, in qualche modo, corrivo ad una certa corrente di pensiero che specula sulla sicurezza dei cittadini a fini di consenso elettorale e che, alla prima occasione, si lascia andare a violente accuse nei confronti della magistratura, rea semplicemente di indagare chi, facendo uso di armi, uccida o ferisca il ladro sorpreso in casa a rubare. Eppure è chiaro a tutti che si tratta di accertamenti doverosi e che – come ha evidenziato il Presidente dell’ANM Eugenio Albamonte – “la giurisprudenza dimostra, anche guardando agli ultimi casi, che c’è un atteggiamento di estremo favore da parte dei giudici verso chi invoca la legittima difesa”. La quale, ai sensi dell’art. 52 c.p., è ancorata ad alcuni precisi requisiti: l’esistenza di un diritto da tutelare, proprio o altrui; la necessità della difesa; l’attualità ed ingiustizia dell’offesa; il rapporto di proporzione fra offesa e difesa. Se poi teatro dell’aggressione è il domicilio, la proporzione nell’uso dell’arma si ritiene integrata allorquando non vi sia desistenza del presunto aggressore e vi sia, invece, pericolo d’aggressione. Si tratta di una disposizione sufficientemente equilibrata, attenta ai valori in gioco e che evita di trasformare il domicilio in una sorta di OK Corral.

L’art. 55 c.p. definisce, poi, il c.d. “eccesso colposo nelle cause di giustificazione”, ravvisabile quando manchi il requisito della proporzionalità fra offesa e difesa e la reazione difensiva sia considerata colposa, o perché frutto di un’erronea valutazione della situazione di fatto (per esempio per aver ritenuto l’estraneo un aggressore mentre tale non era) o per precipitazione o inesatta valutazione dei mezzi di difesa, ecc. Non bastava. Ed allora si è pensato di aggiungere all’art. 52 un ulteriore comma, secondo cui si considera legittima la difesa quale “reazione ad un’aggressione commessa in tempo di notte ovvero con violenza alle persone o alle cose con minaccia o inganno”, e si è modificato l’art. 59 c.p., escludendo l’eccesso colposo le volte in cui l’errore sia “conseguenza di un grave turbamento psichico”. Come dire: chiunque si aggira di notte in casa o per entrare sia ricorso ad una effrazione, corre il rischio di essere ucciso (qualcuno ricorderà il caso Pistorius, che uccise la propria fidanzata in bagno, assumendo di averla scambiata per un ladro: allora ci fu chi, in Italia, si indignò per il trattamento riservato all’atleta sudafricano, giudicato di “estremo favore”). Un pericolo, questo, che si è prefigurato lo stesso Legislatore, dal momento che nella Relazione di accompagnamento si legge testualmente: “per evitare ogni tipo di arbitrio o che possano consumarsi veri e propri omicidi dolosi, in ambito familiare, magari premeditati e mascherati da legittima difesa, il provvedimento prevede che sia necessaria in ogni caso la valutazione da parte del giudice”. E meno male, anche se mi chiedo come sia possibile, nel nostro sistema istituzionale, che un fatto delittuoso, quale che esso sia, sfugga alla valutazione della Magistratura.

In realtà questo disegno di legge tradisce, ancora una volta, una sfiducia nella magistratura, “su come i magistrati applicano le norme di legge” (Albamonte dixit). Non è una novità e non è un fatto solo italiano. Anni fa, il 24 giugno 2003, il giudice federale John Martin, con una lettera al New York Times, comunicò le sue dimissioni dall’Ordine giudiziario. Avendo raggiunto l’età del pensionamento, si dimise perché non più in grado “di garantire i diritti dei cittadini” a seguito di un intervento del Parlamento che riduceva la sua discrezionalità di giudice nella irrogazione della pena. “Il giudice – scrisse Martin – non può essere parte di un meccanismo semiautomatico volutamente rigido, una macchina per sentenze. Privare il giudice della possibilità di graduare la pena tenendo conto della concreta personalità dell’imputato, significa negare la più specifica ed intima funzione giudiziaria”. Ribellione alla legge, quella del Giudice Martin? “Assolutamente no – scrisse un grande magistrato oggi scomparso, Vincenzo Accattatis – ma seria critica di un giudice alle leggi, sì. Perché il Giudice deve avere come punti di riferimento anzitutto i valori costituzionali. Ma anche il Legislatore deve considerare tali valori e non può pretendere di dettare ai giudici la corretta interpretazione della legge”.

Peraltro, tornando al DDL sulla legittima difesa, non si può non sottolineare come, in una sorta di eterogenesi dei fini, esso abbia finito vieppiù con l’ampliare lo spazio interpretativo del Giudice, non solo perché – come pure è stato rilevato – il tempo di notte non è “adeguatamente qualificato”, ma anche per l’estrema genericità dello “stato di grave turbamento psichico”, che escluderebbe l’eccesso colposo.
Insomma, un vero pastrocchio da correggere al Senato; che – come ha sottolineato con sottile perfidia il Presidente Grasso – “per fortuna non è stato abolito”.
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