Quel piano B per tornare alla lira tra dubbi e (in)convenienze

Quel piano B per tornare alla lira tra dubbi e (in)convenienze
di Guglielmo FORGES DAVANZATI
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Domenica 10 Giugno 2018, 19:32
L’economista, nel dibattito politico italiano, sembra diventato il possibile risolutore dei problemi del Paese, solo in virtù del fatto che, si presume, sappia far di conto. L’Economia non è una scienza al pari delle scienze della natura; non dispone di modelli previsionali sufficientemente attendibili; propone strumenti di politica economica molto spesso del tutto inefficaci per gli obiettivi che ci si pone. Spesso tende a provare ad appropriarsi di campi di indagine che sarebbero più adeguatamente coltivati da altre discipline. Ma soprattutto l’Economia è una disciplina plurale, all’interno della quale esistono orientamenti teorici diversi e molto spesso radicalmente contrastanti.

Un esempio recente di sovrastima delle capacità degli economisti di “salvare il Paese” è il cosiddetto Piano B, elaborato nel 2015 dal professor Paolo Savona, che prevede con estremo dettaglio la procedura tecnica da seguire per il ritorno alla lira. Il documento - al di là della desiderabilità dell’exit italiano - propone uno scenario sulla cui fattibilità è quanto meno lecito avere seri dubbi.   Ci si riferisce, in particolare, al punto di inizio del processo - il periodo di transizione dall’euro alla nuova lira - che il prof. Savona denomina D-Day. Il Piano B parte da un presupposto inoppugnabile: la procedura di uscita deve essere mantenuta segreta, per evitare attacchi speculativi e corsa agli sportelli. Come fare? Nel documento si immagina che nel primo mese “i funzionari chiave pianificano l’uscita in segreto”, attuando “immediatamente controlli sui capitali e piano accelerato se la notizia trapela”. Non è chiaro chi potrebbero essere i “funzionari chiave”, per quale ragione dovrebbero custodire il segreto, né è chiaro come verrebbero selezionati. Sembrerebbe trattarsi di una sorta di tecnocrazia illuminata, il cui obiettivo – diversamente dalla tecnocrazia europea, e davvero non si capisce perché – è fare gli interessi dei cittadini italiani, e l’interesse dei cittadini italiani coinciderebbe con l’exit. Nel Documento si fa riferimento a un “gruppo di esperti indipendenti (un’autorità comunque italiana)”.

Il Piano B prosegue suggerendo, nei successivi tre giorni dalla decisione di uscita, di chiudere le banche e i mercati finanziari. Si immagina implicitamente che questa scelta sia percepita come una condizione normale.
Seguirebbero: nazionalizzazione della Banca d’Italia, ricapitalizzazione delle banche, ridenominazione del debito pubblico nella nuova valuta nazionale, immediata revoca della disposizione del Tesoro del 1981, il c.d. divorzio, abolizione dell’obiettivo del pareggio di bilancio dalla Costituzione, reintroduzione dell’IRI e, infine, conversione in misura 1:1 dei salari monetari da euro a nuova lira.

Quest’ultimo punto è interessante, giacché getta luce sul fatto che - per i lavoratori - lo scenario ipotizzato dal mancato Ministro leghista (anche ammessa la sua realizzabilità) sarebbe peggiorativo rispetto alle condizioni attuali. Nel Piano B si riconosce che l’abbandono dell’euro produrrebbe svalutazione della nuova lira e che la svalutazione comporta un aumento del tasso di inflazione. In assenza di meccanismi di indicizzazione dei salari, ciò produrrebbe una riduzione dei salari reali. Si legge poi che l’indicizzazione dei salari (ovvero il loro adeguamento al tasso di inflazione) è semmai causa di inflazione e che, per questa ragione, va evitata e si stima un impatto inflattivo nell’ordine del 3%.

Può essere opportuno ricordare che la quota dei salari sul Pil (in Italia con intensità maggiore rispetto alla gran parte dei Paesi europei) ha cominciato a ridursi ben prima dell’adozione dell’euro. Può essere opportuno aggiungere che i salari reali percepiti dai lavoratori italiani sono inferiori a quelli ottenuti dalla gran parte dei loro colleghi europei, peraltro in una condizione nella quale le ore lavorate sono maggiori in Italia.
In tal senso, l’attuazione del Piano B non farebbe altro che accelerare questa dinamica, accentuando le già elevate diseguaglianze distributive in Italia. È questa, per il “popolo”, la “Nuova Era Economica Sovrana” evocata nel piano B?

Vi è di più. Nella slide 71 del Documento si propone una ridistribuzione dei trasferimenti pubblici sulla base del “best case regionale”. Non viene aggiunto altro, ma sembra ragionevole ritenere che questo riferimento sia un richiamo al federalismo fiscale e ai costi standard. Anche in questo caso, l’exit accentuerebbe problemi già esistenti e rilevanti, accelerando ulteriormente le divergenze regionali. Ciò sia a ragione di questa previsione del piano B, sia soprattutto a ragione del fatto che – nel Documento – la ripresa della crescita economica in Italia è pressoché interamente demandata all’aumento delle esportazioni nette (cosa resa possibile – secondo la Lega - dalla svalutazione della nuova lira). Si consideri, a riguardo, che il 20% delle imprese italiane copre l’80% del totale delle esportazioni italiane e che queste imprese sono quasi tutte localizzate al Nord. In questo scenario, è ragionevole attendersi un ulteriore impoverimento delle regioni meridionali e, come sempre accaduto in Italia con il ricorso alle svalutazioni competitive, un ulteriore freno alle innovazioni. Se infatti le imprese sono poste nella condizione di guadagnare competitività sui mercati internazionali tramite deprezzamento del tasso di cambio, viene meno, per loro, l’incentivo a guadagnare competitività tramite incrementi di produttività e, dunque, tramite introduzione di innovazioni.

L’attuale architettura europea è indifendibile e probabilmente non riformabile. Sebbene scontato, è bene ripetere che l’exit italiano – ammesso che sia tecnicamente ammissibile, nella forma presentata nel Piano B – non è un vantaggio per la Nazione: nella migliore delle ipotesi, potrebbe rivelarsi un beneficio per le piccole imprese del Nord e, in parte, per le imprese meridionali.

Di quali imprese si tratta? Istat certifica che solo il 10% delle imprese italiane non ha subìto riduzioni dei margini di profitto a seguito della crisi. Sono, dunque, le imprese che non sono riuscite a recuperare competitività sui mercati internazionali e dunque almeno a preservare almeno i propri profitti a seguito dello scoppio della crisi, ovvero le imprese meno efficienti, a domandare l’exit. Le imprese che operano sul mercato interno (prevalentemente collocate nel Mezzogiorno) potrebbero sperare che l’attuazione di politiche espansive, a seguito dell’abbandono dell’euro, accresca la domanda domestica. E potrebbero avvantaggiarsi della detassazione degli utili implicata dall’attuale formulazione della flat tax. In tal senso, la Lega, da un punto di vista propriamente economico, prova a schierarsi, nel conflitto intercapitalistico italiano, dalla parte del capitale più debole, meno internazionalizzato e con minore propensione all’innovazione. Ma, così facendo, in nome del superiore interesse della Nazione, prova a realizzare due obiettivi non desiderabili: accresce le diseguaglianze distributive e “salvare” imprese destinate al fallimento. Le piccole imprese prevalentemente del Nord che, dopo la fase espansiva (politicamente sostenuta dalla Lega Nord) degli anni novanta, hanno visto ridursi i loro margini di profitto e, nell’incapacità di recuperarli attraverso innovazioni e aumento delle dimensioni aziendali, sperano che la politica le aiuti a recuperare quanto perso attraverso la via facile della svalutazione.

 
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