Natale, tempo dell'essenza e della speranza

di Antonio ERRICO
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Lunedì 26 Dicembre 2016, 17:03
Nessun tempo è uguale a un altro tempo. Vengono tempi in cui prevale il superfluo, l’apparenza, lo scintillio senza sostanza. Ne vengono altri in cui si avverte il bisogno urgente di recuperare i significati profondi, essenziali, in cui si prova un sentimento viscerale, ci si confronta con una ragione superiore, con il valore radicale delle cose, delle storie, dei riti, dei miti, della festa, dell’evento, dell’attesa.
Il tempo in cui si cerca di comprendere davvero le cause e gli effetti delle nostre azioni, dei nostri pensieri.
I Vangeli raccontano un Natale essenziale. Poi, probabilmente, da quella essenzialità ci siamo gradualmente allontanati. Ma nessun tempo è uguale a un altro tempo. Forse questo è il tempo in cui si deve ritornare all’essenziale: a quello che ha essenza, da cui non si può prescindere, al quale non si può rinunciare.
Può essere che ci si sia stancati degli orpelli, dei fiocchetti insignificanti, degli stanchi rituali consumistici e senza scopo. Può essere che si stia cercando di recuperare e di rigenerare i concetti e le parole con le quali esprimiamo i nostri desideri, le nostre speranze, le considerazioni che abbiamo per noi, per gli altri.
Nessun tempo è uguale a un altro tempo. Il tempo che viviamo esprime la concretezza di una speranza nei confronti degli uomini, nei loro progetti di sviluppo, nella loro responsabilità: non di una speranza come vaga idea, come principio generale, ma di una speranza che rassomiglia a uomini e donne che si chiamano poveri, che si chiamano profughi, che hanno il nome di tutti i bambini sepolti sotto le macerie di Aleppo. Il Natale è il simbolo della speranza: esclude ogni pensiero, ogni espressione di indifferenza. La speranza pretende un gesto concreto di coinvolgimento, di partecipazione, una testimonianza dell’essere con l’altro, per l’altro.
A volte le cronache, i resoconti, i dati delle statistiche fanno spavento. Le situazioni di povertà, di emarginazione, i disagi, le difficoltà, i malesseri di ogni genere che crescono, dilagano, fanno spavento.
Ma forse è proprio da questo spavento che devono generarsi azioni che diano una speranza di cambiamento. Non può essere un cambiamento immediato, certamente. Ma almeno deve cominciare, e la solidarietà, che pure è fondamentale, non basta. Bisogna potenziare la tensione verso l’equità sociale.
Scriveva una volta quella creatura che sembrava venuta da un altro pianeta e che qui sulla terra rispondeva al nome di Alda Merini: “Che Natale povero,/ che Natale senza intenzioni./ Hanno fatto la messa prefestiva/ per lasciarti andare in vacanza/ e tutti che si ammazzano / per andarsi a godere la vita/ Ma io dal solaio maledetto / ho salvato due statuine / e mia figlia minore, / quando eravamo poveri,/ mi diceva “ perché Mamma/ non facciamo un bel “ presempio”./ Facciamo finta che sia Natale/ tanto di buoni in Italia/ ce ne sono tanti”.
Sì, certo che in Italia ci sono ancora i buoni. Forse in Italia i buoni sono ancora tanti. Ci sono i poveri- anche- in Italia. Anche i poveri sono proprio tanti. I poveri aumentano, e spesso non si vedono. Poveri davvero. Mentre quegli altri vanno in vacanza. Si ammazzano per andare in vacanza, per godersi la vita, diceva la Signora Alda. Oppure per fuggire da se stessi, dal vuoto che hanno intorno, da quello che hanno dentro, che a volte è così fondo, ma proprio così fondo, che neppure se ne accorgono, che non riescono a comprenderlo. Va bene, dunque, partecipiamo alla messa prefestiva e poi andiamocene in vacanza e godiamoci la vita, diceva la poetessa dei matti, la Signora dei Navigli. In fondo è cinicamente giusto così: a ciascuno la sua vita, a ciascuno il suo destino, bello o brutto che sia. Ma in un libro (non ricordo bene quale) don Tonino Bello ha scritto che non è vero che poveri si nasce. Si può nascere poeti, ma non poveri, ha scritto. Poveri si diventa come si diventa avvocati, tecnici, preti; si diventa poveri dopo una trafila di studi, dopo lunghe fatiche ed esercizi estenuanti. La povertà è una specie di carriera, che richiede un tirocinio difficile. Così ha scritto il sacerdote che nacque in un giorno di marzo a Finibusterrae.
Allora, a quelli che hanno potere, a quelli che contano, a quelli che decidono, ai leader di ogni parte, agli alti gradi, a tutti i governi, ai principi di qualcosa, ai padroni di questi tempi, noi che siamo gente di strada per questo Santo Natale vorremmo chiedere di fare qualcosa per interrompere quella carriera che porta alla povertà: che da quando il mondo è mondo e l’uomo è uomo, fatte le eccezioni di straordinaria umanità, non s’è mai visto qualcuno che ci tiene.
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