Papa Francesco e un mondo
dove c’è posto per tutti

Papa Francesco e un mondo dove c’è posto per tutti
di Francesco FISTETTI
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Giovedì 28 Dicembre 2017, 12:58 - Ultimo aggiornamento: 17:32
L’omelia che papa Francesco ha pronunciato durante la messa della notte di Natale contiene degli spunti di riflessione che vanno molto al di là del contesto circostanziale rappresentato dall’evento inaugurale del cristianesimo come la nascita di Gesù Cristo, e che in quanto tale riguarderebbe solo i credenti di una determinata dottrina religiosa.
Quando Francesco afferma che il Natale “ci spinge a dare spazio a una nuova immaginazione sociale, a non avere paura di sperimentare nuove forme di relazione in cui nessuno debba sentire che in questa terra non ha un posto”, che cos’altro sta facendo se non riprendere e rinnovare il nucleo universalistico originario proprio del messaggio evangelico e calarlo nella condizione del nostro tempo storico? E se prendiamo sul serio il suo appello a “dare spazio a una nuova immaginazione sociale”, ci renderemo conto che in esso non solo risuona una tonalità profetica, ma si intravvedono in filigrana i possibili lineamenti di un mondo fondato su “nuove forme di relazione” in cui ci sia “posto” per tutti e per ciascuno.
Non è solo l’egualitarismo cristiano - l’essere tutti creature di Dio o, come si esprime San Paolo nella lettera ai Galati “Non c’è più Giudeo né Greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (3, 28) - che qui viene ricordato ad un Occidente sprofondato nelle acque ghiacciate dell’indifferenza e dell’egoismo. Vi è nell’omelia papale una visione delle cose che getta una sorprendente luce di speranza sull’orizzonte così tenebroso, gravido di rischi mortali e di contraddizioni catastrofiche, in cui viviamo. Ma, si badi, è al contempo una visione assolutamente realistica, a dispetto di tutti coloro che si ostinano a vedere in lui un inguaribile utopista. Infatti, quando egli afferma che in Giuseppe e Maria alla ricerca di un rifugio dove potersi fermare scorgiamo “le orme di intere famiglie che oggi si vedono obbligate a partire”, non è solo un uso metaforico della Natalità che Francesco sta proponendo, esteso a tutti i migranti costretti dalle guerre e dalla fame ad abbandonare i loro paesi.
Egli ci sta suggerendo l’idea che siamo ormai entrati in un regime totalmente inedito della storicità per la cui comprensione è necessaria una “nuova immaginazione sociale”, cioè la capacità di “sperimentare” forme di convivenza del tutto diverse da quelle del passato. Non è solo, dunque, la grande compassione di Papa Francesco verso l’umanità dolente dei migranti il nucleo più profondo della sua predicazione, ma la consapevolezza di un cambiamento del mondo che è senza precedenti, e di cui i migranti sono solo il sintomo più visibile. C’è un testo molto significativo di un filosofo americano, Thomas Nail, intitolato “La figura del migrante” (the Figure of the migrant), il quale mostra che quella del migrante è la figura politica per antonomasia del XXI secolo. E ciò non solo perché in questo secolo ci sono stati migranti regionali ed internazionali più che in tutte le epoche passate, tanto che fino al 2015 si è stimato in circa 250 milioni il numero di migranti, di cui si prevede il raddoppio nei prossimi 40 anni: senza dubbio, un fenomeno nient’affatto uniforme, ma estremamente complesso e differenziato, se pensiamo ai milioni di persone che si spostano per ragioni ambientali e climatiche da un territorio all’altro del pianeta. Nail afferma che “stiamo tutti diventando migranti” anzitutto con riferimento al fatto che spostarsi da parte dei giovani provenienti dai ceti medi impoveriti alla ricerca di un lavoro e di un impiego all’interno dei paesi ricchi, specie dopo la crisi finanziaria del 2008, ha molti tratti in comune con lo status di migranti quanto al godimento dei diritti di cittadinanza. In secondo luogo, è ormai inarrestabile la tendenza verso una condizione sociale globale in cui, lungi dall’essere marginale, il migrante è destinato a diventare l’emblema, se già non lo è diventato, di una pratica paradossale della mobilità, perché al contempo auspicata e negata. Infatti, da un lato la mobilità viene esaltata come una risorsa economica mondiale, legata alla diffusione e promozione del turismo o all’appartenenza ad una élite intellettuale privilegiata che può permettersi di viaggiare, dunque come una fonte di reddito e di ricchezza; dall’altro essa viene interdetta perché associata allo “straniero”, all’”ex-traneus”, a chi viene da fuori a sconvolgere lo statuto dominante dell’alterità, e che molti vorrebbero tenere lontano dalle mura della città.
Senza accorgercene, i media ci portano così a legittimare una contrapposizione fantasmatica tra un “migrante buono” e un “migrante cattivo”. Il turista diviene una declinazione dell’”homo oeconomicus”, mentre il tema del migrante in fuga o del rifugiato viene agitato strumentalmente per alimentare l’ossessione securitaria. Ma che cosa vuol dire che quest’ultimo è considerato o rappresentato come l’arrivante che viene a sconvolgere lo statuto dominante dell’alterità? Vuol dire che egli scuote le immagini convenzionali che noi abbiamo della nostra appartenenza, dei confini della nostra comunità, delle categorie politiche su cui abbiamo strutturato la nostra vita collettiva: in breve, la demarcazione tra “noi” e gli “altri”. Quella dello straniero è stata sempre una figura presente nella storia dell’Occidente: dalla prescrizione delle Sacre Scritture di soccorrere ed ospitare la vedova, il bambino e lo straniero – le figure paradigmatiche della vulnerabilità e della fragilità umana - fino alle riflessioni filosofiche e sociologiche che nella cultura del Novecento lo straniero ha suscitato (per tutti, G. Simmel e A. Schutz). Ma oggi papa Francesco ci ammonisce a non dimenticare che stiamo vivendo il secolo del migrante e che questo cambiamento di paradigma richiede l’impegno a deporre i vecchi schemi ereditati da una modernità escludente e a lavorare alla costruzione di una società conviviale, in cui ci sia “posto” per tutti, dal momento che sulla terra, come amava dire Emmanuel Lévinas, siamo tutti ospiti.

 
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