Le identità diventano gabbie se prevale la paura verso gli altri

Una scena di "Mundi Identitas"
Una scena di "Mundi Identitas"
di Claudio SCAMARDELLA
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Domenica 9 Luglio 2017, 20:57
Si conclude stasera a Lecce il forum “Mundi Identitas”, una interessante tre giorni di eventi, tra confronti e spettacoli, per scrutare a fondo le identità culturali e i diversi linguaggi attraverso i quali esse si manifestano. Un’iniziativa coraggiosa, visti i tempi che viviamo e il clima che si respira nel Paese, come emerso dai recenti sondaggi sui migranti. Tempi in cui le identità, invece di incontrarsi e contaminarsi, tendono a diventare gabbie dove rifugiarsi, fortini su cui isolarsi nel tentativo illusorio di difendersi da chi è diverso, anguste roccheforti dentro cui coltivare la purezza della propria tradizione, della propria cultura e della propria razza. Tempi in cui la spinta a radicalizzare le identità e ad esaltare la comunità - intesa qui nell’accezione rovesciata di Ferdinand Tonnies - rischiano di far percorrere a ritroso il cammino fin qui compiuto dall’umanità. Con l’innalzamento dei muri, la chiusura ermetica delle frontiere, addirittura il blocco dei porti.

Eppure, per capire che non è questa la soluzione del problema, basterebbe chiudere per un attimo gli occhi e pensare come sarebbe oggi il mondo e che cosa sarebbe della nostra civiltà se i porti fossero stati chiusi ai tempi dei mitici viaggi di Ulisse ed Enea, ma anche dei fenici e degli arabi. E questo, sia chiaro, senza sottovalutare l’epocale portata del problema dei flussi migratori, che vanno governati, regolati, controllati, diffidando di quanti affermano che il problema dell’immigrazione non esiste, che la sicurezza non è una priorità, che l’infiltrazione dei terroristi è un’invenzione, che l’accoglienza senza limiti e senza regole è un dovere morale.

Di fatto, la riduzione della complessità, che porta a risposte sbagliate, e la rimozione dei problemi, che finisce per produrre metastasi non più curabili, sono entrambe strade pericolose. E sono entrambe figlie di quella “crisi sistemica” che viviamo dagli ultimi decenni del secolo scorso con l’irrompere sulla scena di tre processi tra loro strettamente intrecciati: la fine delle ideologie, la globalizzazione, la rivoluzione tecnologica e digitale. All’eclissi del vecchio mondo, così come l’avevamo conosciuto dall’Illuminismo e dalla rivoluzione industriale, non è subentrato uno nuovo. Siamo così entrati in un tempo di paure globali che hanno minato, di giorno in giorno, le radici di quel pensiero “forte” e “lungo” che ha spalancato le porte delle società occidentali alla modernità. Ci siamo addentrati in territori sconosciuti, in universi dove tutte le certezze di un tempo o sono diventate macerie o vengono vissute come debolezze. Senza che, però, emergesse un nuovo pensiero “forte” e “lungo”, capace di indicare la rotta per stare insieme e raggiungere approdi comuni. E in questo vuoto, innanzitutto di pensiero, abbiamo perso per strada l’idea-forza del progresso, che è stata la spinta propulsiva della società dei nostri nonni e dei nostri padri: il progresso come una costante irreversibile, universale, come la naturale propensione a migliorarsi, l’avanzamento - più o meno lento - verso traguardi definiti e anche desiderabili.

Scomodando ancora una volta Edgar Morin, siamo così piombati nel profondo di una “crisi cognitiva”. Sappiamo da dove veniamo, ma non sappiamo più dove e come andare. Né con chi andarci. E nemmeno perché. È dentro questa “crisi cognitiva” che trovano una forte spinta, prima, il rifugio nell’io, poi la pericolosa radicalizzazione delle identità. È dentro questa “crisi cognitiva” che ci sono due parole, facce della stessa medaglia, che più di tutte racchiudono i rischi di percorrere a ritroso il cammino dell’umanità. Sono le parole fiducia e paura, i cui valori risultano inversamente proporzionali, nel senso che quanto più diminuisce l’una tanto più aumenta l’altra. Fiducia e paura in se stessi, innanzitutto: non bisogna mai dimenticare che, come ci ha insegnato la filosofia, la paura dell’uomo dipende innanzitutto dalla relazione del suo “io” con il suo “sé” e dal mai risolto dilemma tra il “ri-conoscersi” e il “non ri-conoscersi”. Lo conferma il mito arcaico di Narciso. E lo conferma quel monito “conosci te stesso” che sta alla base proprio della civiltà occidentale con la spinta dell’uomo ad affrontare la sfida di incontrare finalmente se stesso. Ma fiducia e paura anche, e soprattutto, nell’altro e negli altri: proprio l’Illuminismo ci ha insegnato che “nessuno diventa uomo se non tra uomini” e che, perciò, perdere la fiducia nell’altro e nella capacità di essere, insieme, all’altezza delle sfide poste dalla vita, è una sconfitta dell’umanità, significa vivere il futuro con la paura di costruirlo, modellarlo, governarlo.

Ecco, il crollo di fiducia e l’esplosione della paura, in questi anni, hanno propagato i loro effetti in tutte le attività umane: nell’economia, nella politica, nella religione, ma anche nella famiglia, nelle relazioni interpersonali, nelle comunità di lavoro, nella stessa intimità dell’individuo oltre che nella solidarietà e nell’accoglienza. Il nodo vero è lì. La paura sta corrodendo, oltre al pensiero “forte” e “lungo” che è stato alla base della società moderna, anche le forme di organizzazione della vita sociale e delle forme della politica, così come le abbiamo conosciute negli ultimi tre secoli. E ci ha messo di fronte a una realtà che, fino a qualche anno fa, nemmeno immaginavamo: anche la democrazia non può (e non deve) essere considerata una scelta definitiva, una conquista irreversibile, una strada senza ritorno. Ci stiamo finalmente rendendo conto, anzi, che l’era della democrazia può rappresentare una piccola parentesi nella storia millenaria dell’uomo.

La paura. È questo il nemico numero uno dell’uomo del nostro tempo. È la paura che spinge a radicalizzare le identità - territoriali e culturali - e ad esaltare la comunità in contrapposizione alla “societas”. È la paura che sta facendo ripiombare, ovunque, le società e la politica in uno scontro frontale tra “bene” e “male”, tra “io” e “gli altri”, tra “noi” e “loro”, tra la “mia terra” e la “loro terra”. Ed è con il sopravvento della paura, anche grazie alla ideologia della deideologizzazione e alla scomparsa dei grandi soggetti collettivi, che si autoalimenta quella “sindrome” che va sotto il nome di populismo: uno stato d’animo emozionale più che un progetto; una percezione più che un’opzione programmatica o un’idea di società. Basta sfogliare l’insuperabile “Dizionario di politica” curato da Bobbio, Matteucci e Pasquino, nel quale il più accreditato studioso del fenomeno, Ludovico Incisa di Camerana, spiega che non è mai esistito e non esiste una ideologia del populismo e nemmeno un manifesto dei populisti. Quella sindrome, quello stato d’animo emozionale si fonda, piuttosto, su due convinzioni: il popolo, considerato la somma di tanti “io” più che come tanti soci (alleati) che formano una società, è depositario della verità e, al tempo stesso, è vittima di inganni e complotti. E, dunque, non c’è da meravigliarsi se oggi ci troviamo ad affrontare - come ha scritto su queste colonne qualche giorno fa Francesco Fistetti - quel “buco nero del populismo, la cui cultura di fondo è la legge di natura di Hobbes: homo homini lupus in vista della mera sopravvivenza, e in attesa di un Leviatano (sia esso un uomo singolo o un collettivo) che finalmente ponga ordine al grande caos circostante”.

È, perciò, dall’esito della battaglia contro la paura che dipende il nostro futuro prossimo, dipende da come sarà il mondo che lasceremo ai nostri figli. Dipende il destino della democrazia. Dipende la costruzione di un’era di pace o di lunga una fase contrassegnata da guerre tra civiltà, identità e religioni. Ora, se la crescita della paura è direttamente proporzionale con il crollo della fiducia, è su quest’ultima che bisogna fare leva per trovare una via d’uscita. E la fiducia si ritrova partendo da dove l’abbiamo persa. Cioè, quando abbiamo smesso di avere una forte tensione ideale e di valori per stare insieme, quando abbiamo smesso di fidarci l’uno con l’altro per realizzare progetti e obiettivi comuni, quando abbiamo abbandonato l’idea e i sogni di poter cambiare il mondo o di volerlo conservare così come è, quando abbiamo scambiato le macerie materiali e morali prodotte dalle ideologie con la morte delle stesse ideologie, buttando via il bambino con l’acqua sporca. Quando abbiamo cominciato a pensare che con il ritorno e il trionfo dell’“io” (senza nemmeno incontrarsi con il “sé” e senza nemmeno “ri-conoscersi”) ci saremmo trovati finalmente alla tanto agognata fine della storia. E quando tutti - ma proprio tutti - abbiamo abdicato al pensiero unico. C’è poco da fare, da lì bisogna ripartire per rifondare e ritrovare un pensiero “forte” e “lungo”, non quello “debole” e “breve” della rete e della sindrome populista. Qualcuno, dalle parti del Vaticano, ha cominciato a farlo. Da solo, certo, non ci riuscirà. Ma insieme si può. Se ricominciamo a parlare, non a urlare. Se riprendiamo a dialogare, non a imporre. Se cerchiamo di incontrarci, non di separarci. Accettando anche i linguaggi e le culture dell’altro. Ecco perché il forum “Mundi Identitas”, che si chiude stasera a Lecce, va nella direzione giusta.
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