Una scissione dannosa per la sinistra, il Paese e soprattutto il Sud

di Fabio CALENDA
4 Minuti di Lettura
Domenica 19 Febbraio 2017, 17:56
“In te non stanno sanza guerra li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode, di quei ch’un muro e una fossa serra”. Nel tornarmi in mente l’invettiva contro l’Italia nel sesto canto del Purgatorio, mi è venuto un dubbio.
Mi sono chiesto quale spunto l’avesse ispirata al Poeta. Il dubbio l’ha sciolto il verbo utilizzato. Rodere. Con la notevole preveggenza di settecento anni, egli ha anticipato la natura del cupio dissolvi che rischia di mandare in pezzi le difese della rocca più forte (il muro e la fossa) del nostro paese. Il Partito democratico. Sull’orlo di una scissione incomprensibile, da cui è fin troppo facile prevedere che ciascuna parte risulterebbe perdente.

Le cause. Diversità di culture al suo interno? Vi sono, ma non tali da impedire una convivenza, anche fruttuosa, come accade in tutti i partiti moderni. Contrasti nella linea politica? Certamente, ma non inconciliabili. Tutti i leader che ne fanno parte si proclamano riformisti, anche se in prossimità dello strappo, i propugnatori, con toni accorati e/o ultimativi, lamentano istanze rivendicative e identitarie che sarebbero state disattese. Il politichese impazza, ma le urgenze sul tappeto permangono, destinate ad aggravarsi nel prolungamento dello psicodramma in atto: recupero di produttività del sistema nel suo complesso; occupazione; debito pubblico; posizionamento in Europa; crisi di comparti del sistema bancario e via elencando. Nodi, nella loro concretezza, poco suscettibili ad essere sciolti in diatribe durante la prolungata attesa della resa dei conti congressuale, ma che sottendono fatti di carne e sangue da cui dipendono sicurezza e benessere dei cittadini. La cui fiducia nei confronti della politica è già gravemente intaccata. La responsabilità dell’azionista di gran lunga maggioritario di un governo è di approntare le ricette: discutendo, litigando (perché no?), infine decidendo. Lo spettacolo, ormai al diapason, intessuto di personalismi, calcoli di corto respiro, livori, furbizie, minacce, non solo è disdicevole, ma anche immorale. Autolesionista, soprattutto.

Rodimento. Il sostantivo sintetizza la deriva in atto. Presumo condiviso dall’uomo della strada. Dall’elettore. Che non comprende e non si capacita. Quando i rodimenti prendono la mano, serve a poco il bilancino di torti e ragioni. A mio avviso, il segretario sbaglia nel premere troppo l’acceleratore sul congresso; ancor più i suoi avversari nell’intento di rinviarlo, sperando in un insuccesso nelle amministrative che consentano di infliggergli il colpo di grazia, dopo un’incessante azione di logoramento. Altrimenti, minacciano, la scissione è cosa fatta. Scissione. La maledizione della sinistra, di volta in volta giudicata corrotta o rigenerata. In un box sul quotidiano La Stampa (16 febbraio), il giornalista Mattia Feltri ha tracciato una gustosa panoramica delle formazioni nate per partenogenesi successive dal troncone del Partito comunista. Con scarsa originalità nelle denominazioni oltretutto (Sinistra e Libertà; Rifondazione comunista; Comunisti-Sinistra Popolare; Partito comunista dei lavoratori; Progetto comunista; Unire la sinistra, tanto per citarne alcune). Nel caso del Partito democratico la questione è ben più decisiva. Si tratta di un partito affermato, la cui frattura sarebbe promossa da esponenti di esperienza, che hanno contribuito a fondarlo, svolgendo anche ruoli di primissimo piano in diversi esecutivi.
Una situazione, questa, che risalta in negativo pur nel panorama sfilacciato della politica italiana. Anche la destra è divisa, fatto inedito nella storia repubblicana, ma almeno lo è per concreti motivi politici. L’estremismo di stampo populista di Salvini deve contentarsi per ora della sponda della Meloni, ma difficilmente potrà saldarsi col conservatorismo moderato di Berlusconi. Non è da escludere che le lacerazioni a sinistra facilitino una riunificazione, al momento difficilmente realizzabile, sul fronte opposto. Un regalo potenziale agli avversari politici.

Il vero beneficiario, come tutti sanno, sarebbe l’unico competitore del Partito democratico. Il movimento di Grillo al momento riesce a mostrare compattezza, contenendo l’emergere di rilevanti crepe interne; agita con efficacia temi di indubbia presa, in primo luogo la legalità; manifesta la capacità di collegarsi agli umori cangianti dell’elettorato, soprattutto al suo sdegno e alle sue frustrazioni. Si tratta di un movimento intrinsecamente ondivago, in grado di svolgere una funzione di pungolo, non una coerente azione di governo. Aggiungerebbe un’instabilità di cui proprio non si avverte il bisogno.

Recentemente mi è parso di cogliere segnali di resipiscenza nei due schieramenti. Sull’opportunità di portare a termine una legislatura, giunta ormai in prossimità degli sgoccioli, le posizioni non appaiono inconciliabili, almeno a parole. Sui tempi del congresso, ciascuna parte dovrebbe compiere un passettino indietro. Non sono ottimista. Entrambe ritengono che siano decisivi per mantenere o conquistare il controllo del partito. Non ne sono convinto. Non è questione di qualche mese in più o in meno: un partito è sempre contendibile, purché emerga l’uomo adatto a catalizzarne potenzialità e aspirazioni.

Rimangono i rodimenti, i più duri a morire. Mentre la sinistra leva a gran voce le grida sul supposto distacco dal “nostro popolo”, le esigenze del paese intero sono finite nel dimenticatoio. “Un paese normale” auspicò il più autorevole tra gli eventuali protagonisti della scissione. Un paese che ne risulterebbe inevitabilmente ferito, soprattutto il Mezzogiorno, bisognoso di certezze e più esposto agli effetti paralizzanti di convulsioni politiche.
Un famoso scrittore delle nostre terre, militante di sinistra, ha giudicato meritevole di psicanalisi lo spettacolo a cui stiamo assistendo. Condivido ricollegandomi alla saggezza degli antichi. Quos deus vult perdere dementat prius.
© RIPRODUZIONE RISERVATA