Basta alibi, tocca a noi svoltare

di Claudio SCAMARDELLA
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Mercoledì 24 Agosto 2016, 17:01
Capita spesso quando si apre e si sviluppa un dibattito sulle colonne di un giornale che, a un certo punto, ci si allontana dal punto di partenza e, perdendo il filo, si imboccano strade completamente fuorvianti o, come direbbero i professori di italiano, si va fuori traccia.
Capita anche che si finisce per banalizzare, nel caso in cui si dissente, le tesi o le riflessioni degli altri, soprattutto quando ci si arrocca in una sorta di difesa d'ufficio delle posizioni poste in discussione. Mi perdonerà il professore Zacheo, che stimo molto per le puntuali analisi e l’impegno autenticamente meridionalista, ma il suo intervento riflette molto di questi vizi.

L'editoriale di dieci giorni fa, da cui sono scaturiti (per fortuna) diversi interventi, partiva da un punto richiamato peraltro anche nel titolo: la retorica sul Sud sedotto e abbandonato, tradito, ingannato, volutamente punito e penalizzato dalle classi dirigenti del Paese, rimosso dal centro dell'agenda politica italiana risulta ormai un esercizio sterile e di lamentosa testimonianza se non si comprendono le ragioni storiche, geo-strategiche, economiche e politiche, interne ed internazionali, che hanno determinato questa progressiva perdita di interesse e di attenzione verso il Mezzogiorno. Quella retorica è frutto di una pigrizia intellettuale che porta a una lettura datata e ormai inadeguata del Mezzogiorno, sicuramente arretrata rispetto a quella che ha fatto qualche giorno fa Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera. Ed è una lettura che sorvola forzatamente sullo storico fallimento dei due tipi di intervento sperimentati per oltre un secolo dalle politiche pubbliche per ridurre il divario con il Nord - quello centralista e quello della programmazione negoziata decentrata - nonostante la spesa di una enorme quantità di denaro, di gran lunga superiore a quella che è servita in Germania per l’integrazione in pochi anni dell’Est dopo il crollo del muro di Berlino.

Non solo. Proprio partendo dagli scenari completamente mutati rispetto al secolo scorso, la cassetta degli attrezzi del meridionalismo classico, dai filoni più alti e nobili a quelli più corporativi e dalle spinte meno pulite e trasparenti, appare oramai superata. Se non addirittura funzionale - eterogenesi dei fini - a quel ribellismo dei nuovi Masaniello al governo di città e regioni meridionali che, cavalcando il populismo identitario, rischiano di spingere ad un fatale isolamento il Mezzogiorno fino a una sorta di secessione cercata e voluta nei fatti e nei comportamenti (su questo l’analisi di Galli della Loggia è esemplare). Molto indicativo, a questo proposito, è anche il recente sondaggio Swg, pubblicato dal Messaggero una settimana fa, sulle dimensioni e sulle modalità attraverso le quali potrebbero manifestarsi nel Mezzogiorno il risentimento e la rivolta contro le élite, già esplosi altrove.

Può darsi che qualcuno trovi ingenerosa questa posizione di distacco verso le grandi figure del meridionalismo teorico e pratico del secolo scorso. Può anche darsi che qualcuno pensi che ciò che è oggi il Sud, nel bene e soprattutto nel male, non sia anche il frutto delle gravi degenerazioni e dei disastri avvenuti con gli interventi straordinari del secolo scorso. E può darsi che questa presa d'atto possa far male a chi, soprattutto a sinistra, ha pensato alla fine del secolo scorso che bastasse la sostituzione del vecchio ceto politico per far cambiare marcia al Mezzogiorno. Di sicuro, volgere lo sguardo all'indietro, continuare a invocare la “questione nazionale” (in un’era in cui gli Stati nazionali vivono una crisi epocale), vagheggiare un ritorno ai vecchi strumenti e alle vecchie politiche pubbliche nel Mezzogiorno vuol dire solo ricadere nel lamentoso “nonsipuotismo” e nell’attesa messianica, oltre che in un linguaggio ormai logoro, che suona sempre più astruso se non fastidioso alle orecchie soprattutto delle giovani generazioni meridionali.

Affermare ciò, significa sostenere che il Sud sia diventato oggi un'isola felice, un territorio in cui i fondamentali macro-economici sono in ordine, un'area geografica in via di rapido sviluppo e che la “questione meridionale” non esista più? Significa sostenere che “piccolo” è bello, ignorando la competizione globale? Significa che la Puglia, con l'esplosione turistica di questi anni e con l'idea che si va affermando in larghi settori della società di una riconversione del vecchio modello di sviluppo, abbia risolto tutti i problemi e sia diventata una sorta di nuova terra promessa? Mi sembra francamente una banalizzazione. E ancora più banale, perché vecchio di almeno quindici anni (ricordate i duelli Rossi-Viesti), appare il giochino di contrapporre quanti rivendicano ancora la necessità di interventi pubblici nel Mezzogiorno e quanti, invece, sostengono la necessità di uno sviluppo autopropulsivo. È un artificio retorico che serve a poco.

Il punto, piuttosto, è: come il Sud può ridestare interesse e attenzione nei nuovi scenari emersi dalla fine della guerra fredda, dai processi di globalizzazione e dalle forti interdipendenze venutesi a creare con la non lineare unificazione dell'Europa? Come può tornare al centro di un'agenda di interventi, pubblici e privati, nazionali e internazionali? E su quali terreni può e deve aprire vertenze e battaglie, territorio per territorio, con lo Stato centrale e anche con l'Europa per ottenere pari opportunità e pari diritti di cittadinanza garantiti in altre parti del Paese e in altri Paesi? È qui che la retorica dell'abbandono e dell'inganno, o del tradimento, non regge più. Perché non regge più, alla luce delle dure repliche della storia, l’alibi che tocca “prima agli altri” e poi “a noi”. E anche perché non regge più il vecchio assunto del meridionalismo sulla priorità e sulla centralità della spesa pubblica, quasi fosse una variabile indipendente rispetto agli altri fattori di crescita e di sviluppo. È giunto il tempo di rovesciare il paradigma. E tocca anche a noi farlo, proprio in nome di un meridionalismo aggiornato e al passo con i nuovi scenari. Non più soli-soldi-soldi per decidere solo dopo se e come spenderli (o rubarli). Ma idee-idee-idee e progetti-progetti-progetti per ottenere finanziamenti veri, selettivi e finalizzati (abbiamo avuto un esempio virtuoso con gli interventi per il recupero dei beni culturali in Puglia e nel Salento con la gestione del ministro Massimo Bray). Sarà, forse, meno conveniente per il ceto politico che, è sempre bene ricordarlo, sulla “questione meridionale” e in nome e per conto del “meridionalismo” ha costruito per molti decenni consensi e affari. Ma, sicuramente, sarà molto più conveniente per quanti vorranno continuare a vivere nel Mezzogiorno.
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