Un taglio netto col “vecchio” Pd. Passa da qui la nuova strategia dell'ex premier

di Mauro CALISE
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Lunedì 27 Febbraio 2017, 17:49
Purtroppo, siamo solo all’inizio. Per chi si fosse voluto illudere che la scissione ormai conclamata facesse calare il sipario sulla faida-telenovela che ci ha assediato in queste settimane, le dichiarazioni di Speranza sul familismo del renzismo non lasciano alcuna speranza. Velenose come un pizzino, sono un messaggio fin troppo chiaro che, nei prossimi mesi, il neonato movimentino avrà un unico obiettivo programmatico. Che non sono i giovani e il lavoro (come hanno generosamente annunciato), ma lasciare senza lavoro il giovane che ha osato sfrattarli dal partito che avevano fondato. E di cui ancora si considerano i legittimi eredi. Per chi, infatti, ha un minimo di dimestichezza con la storia della Terza Internazionale – da cui tutti gli esodati discendono – la partita sulla proprietà del partito – e sulla membership - è tutt’altro che chiusa. Come peraltro hanno lasciato intendere, in modo esplicito e speculare, sia Orlando che D’Alema. Se negli ultimi due anni Bersani & co. avevano lavorato a logorare Renzi dall’interno, da oggi in poi lo faranno dall’esterno. Senza, peraltro, rinunciare al cavallo di Troia che il ministro – in carica – della giustizia sembra intenzionato ad offrirgli. Di che armi dispone Matteo Renzi per sottrarsi a questo duplice assedio?

La prima è quella di cambiare strategia, abbandonando i toni concilianti e prendendo atto che non c’è – non c’è mai stata – alcuna prospettiva di ricomposizione. Se non quella di posare – più o meno metaforicamente – il capo sul ceppo. In questa chiave, ha ragione Biagio De Giovanni quando parla di un nuovo inizio e di un nuovo Pd. Renzi, oggi, non ha alcun interesse a rimarcare la continuità, peraltro con un’esperienza che aveva mostrato fin dagli esordi i suoi limiti culturali ed ideologici. E che aveva l’unica ragion d’essere nel tentativo – tardivo – di rispondere con un partito maggioritario alla schiacciante egemonia berlusconiana. Era questo l’imprint veltroniano – l’unico disegno strategico nel ventennale letargo post-comunista e post-democristiano – ed era a questo elemento propulsivo che Renzi si era abilmente agganciato. Cercando di farlo sopravvivere con il combinato disposto dell’Italicum e della riforma costituzionale. Sempre per la stessa ragione, questo era diventato il terreno dello scontro fratricida e frontale con l’oligarchia della Ditta, cresciuta nella bambagia consociativa del proporzionale e fermamente intenzionata a tornarci. Un obiettivo che - almeno al momento – sembrerebbe a portata di mano.

Proprio per questo, però, a Renzi converrebbe accelerare sulla discontinuità, su una svolta netta col passato. Anche a costo di perdere per strada qualche altro pezzo di nostalgici. Ma col vantaggio di mettere subito i suoi sfidanti ufficiali di fronte a uno spartiacque: se scegliere il dialogo, magari sottobanco, con le illusioni del Novecento, o se accettare con coerenza e coraggio le sfide di questo Millennio. Che poi, tradotto in politichese, significa scegliere tra le sirene della rappresentanza e la responsabilità del governo. Il punto più rilevante di rottura dell’ex premier rispetto al passato non era tanto consistito nella – fin troppo sbandierata – rottamazione. Un termine che, per giunta, non sembra avergli portato bene. Ma nel fatto di avere dato all’Italia – primo caso in settant’anni di repubblica – un presidente del Consiglio che aveva scelto Palazzo Chigi per - provare a - riformare il paese. L’unico leader italiano ad avere anteposto il ruolo – e il linguaggio – istituzionale a quello di segretario di partito. Paradossalmente, ma non troppo, la autocaduta di Renzi è coincisa con l’abbandono di quella innovazione. Cessando di essere un premier super partes e rinchiudendosi nella particina di tribuno di una fazione referendaria.

Per riconquistare l’abbrivio e l’autorevolezza di una visione governativa capace di convincere e mobilitare, l’ex-segretario non ha molto tempo. E ha molti meno amici di ieri. Avrebbe pur sempre – non va dimenticato – quell’esercito di votanti che, appena tre mesi fa, gli aveva dato fiducia. Una fiducia molto personale – come i suoi avversari non hanno smesso di rinfacciargli. Ma che, proprio per questo, è una riserva che potrebbe essere riattivata. A condizione che Renzi riesca a dimostrare – a se stesso e al paese – che siamo entrati in un’altra era. In cui, a voltarsi indietro, si rischia di fare – tutti – la fine di Orfeo.

 
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