Nella sconfitta Renzi ha trovato un tesoretto

di Mauro CALISE
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Giovedì 8 Dicembre 2016, 18:33 - Ultimo aggiornamento: 18:35
Sono usciti due risultati dalle urne. Che, nell'eccitazione dei commenti immediati, sono stati confusi da vincitori e perdenti. Mentre vanno, invece, tenuti ben distinti. Anche perché riguardano due sfere che prenderanno un andamento molto diverso. La prima è quella costituzionale. Sulla quale c'è poco da aggiungere e commentare rispetto ai numeri. Ha vinto il No, in modo inequivocabile. La Costituzione non si cambia. Tutt'altro discorso va fatto sul fronte degli equilibri politici. Tranne qualche coraggiosa voce fuori dal coro, finora il leit motiv è stato che Renzi ha preso una sonora batosta. Perchè su un punto sono tutti d'accordo. Alla fine lo scontro è stato tra favorevoli e contrari a Renzi. E il premier ha perso la battaglia. Qui però i numeri si prestano a chiavi di lettura ben diverse, a seconda di quelli cui guardiamo.

Finora si sono quasi tutti soffermati sulle percentuali. Che registrano impietosamente lo scarto: venti punti di differenza. Ma se si passa ai valori assoluti, la musica cambia. E di molto. Se, una volta assodato il verdetto costituzionale, si fa l'analisi politica dei voti espressi ai due schieramenti, non interessa più tanto il vincitore. Ma di che vincitore si tratti. E quali consensi abbia raccolto. Idem, per lo sconfitto. E qui scopriamo ciò che già sapevamo, ma che, nella fretta di gettare la croce addosso a Renzi, rischiamo di dimenticarci. L'armata del fronte del No, trovo il termine accozzaglia inutilmente offensivo, è la più eterogenea che si sia vista nella storia delle repubblica italiana. Va da D'Alema a Fini, passando per Cirino Pomicino, Brunetta e la Meloni, arrivando a capibastone del calibro di Salvini e Grillo, e includendo professoroni della stazza di Zagrebrelsky. Che cosa hanno in comune, al di là dell'obiettivo riuscito di mandare a picco la riforma? Niente, si sono affrettati a dichiarare tutti in coro. Appunto.

Ora che la partita referendaria si è chiusa e si apre quella politica, l'armata non conta più niente. Nessun collante, nessuna identità. Nessunissima prospettiva. Cioè, nessuna capacità di giocare alcun ruolo in cui far pesare quel roboante 60%. Sul piano costituzionale, un trionfo. Su quello delle prospettive politiche, al più una vittoria di Pirro. Il quadro muta drasticamente se, leccate le molte ferite, analizziamo la situazione di Renzi. Che ha raccolto, intorno al suo nome e alla propria proposta di riforme, 13 milioni di voti. Due in più della clamorosa vittoria che, alle europee, mise le ali al suo ingresso a Palazzo Chigi. E con un salto di qualità, che mette ancora più in risalto la performance del premier.

Sono infatti, inconfutabilmente, voti renziani (secondo l'accusa di personalizzazione dello scontro che gli muovono gli opinionisti). Che vanno oltre il recinto del Pd. Anzi, come ci ha mostrato Nando Pagnoncelli sul Corriere, se avesse fatto il pieno dei suoi, sarebbe arrivato ben più in là. E non sono voti qualunque. Sono elettori che sono andati alle urne dopo una battaglia durissima, in cui era molto chiaro dall'inizio quale fosse la posta in gioco: il tentativo di cambiare verso, non solo alla Costituzione, ma al Paese.
Non è l'ennesimo partito personale. Ma è una ampia e solida base elettorale su cui il premier sa di poter contare. Soprattutto se si dovesse andare rapidamente alle urne. Tanto più che è lecito augurarsi che Renzi abbia imparato almeno alcune delle lezioni di comunicazione impartitegli da questa campagna. La forza tranquilla dei votanti che, con caparbia e coraggio, ha messo insieme, può consentirgli di tenere in piedi e bene in vista l'orizzonte strategico di cui l'Italia ha sempre più bisogno. Va chiuso il tempo delle polemiche. E aperta una stagione in cui chi ha più filo e voti veri tesserà il futuro del paese. Per farlo, Renzi dovrà riuscire, nei prossimi giorni, a muoversi tra Scilla e Cariddi. Tra la garanzia di un passaggio parlamentare difficile, in cui riuscire a mettere in sintonia le due - nuove - leggi elettorali per la Camera e per il Senato. E i trabocchetti del suo stesso partito, che pure sa di non avere alternative di leadership. Ma che, al tempo stesso, sarà tentato dalle sirene della ennesima rivolta oligarchica. Il duello è lo stesso che Renzi ha già affrontato in passato. Il consenso contro la nomenklatura. Ce l'ha fatta la prima volta. Ma è il secondo round quello decisivo.
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