Come ricucire lo strappo del referendum

di Vincenzo TONDI della MURA
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Lunedì 26 Dicembre 2016, 16:58 - Ultimo aggiornamento: 16:59
La drammatica divisione derivata al Paese dalla violenta campagna referendaria sul testo di revisione costituzionale Renzi-Boschi, non può essere affrontata se non rompendo gli schemi tradizionali e guardando all’essenziale. Essa pone una domanda preliminare sul valore da riconoscere al desiderio di un bene comune, se da ritenere ancora concreto e operativo.
Si tratta di una domanda che rinvia a ulteriori interrogativi parimenti radicali e decisivi: è possibile porre fine all’infinita transizione della Seconda Repubblica con la semplice sostituzione di nuove regole istituzionali, così da sfuggire a una lettura in qualche modo condivisa del passato e del presente? È possibile leggere la storia prescindendo da quel realismo sperimentato nella Prima Repubblica, il cui impiego consentì di coniugare le esigenze politiche nazionali con quelle geopolitiche internazionali? In tale prospettiva, come valutare l’imponente partecipazione popolare che ha caratterizzato il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 (pari al 70% degli elettori, ben oltre la percentuale del 40-50% che ha segnato le ultime tornate elettorali)? Come considerare l’altrettanto imponente differenza di consensi registrata fra i due fronti referendari, tale che lo schieramento a favore della Costituzione ha surclassato del 20% quello riformatore, a sua volta favorito dal dominio mediatico esercitato dal Governo? Come evitare che il popolo si senta abbandonato a se stesso, dopo essere stato mobilitato su una scelta così dirimente per il destino della Repubblica? Come impedire che restino inascoltate le pari ragioni di cambiamento manifestate in senso opposto ma concorrente dagli elettori del SI (oltre 13 milioni) e del NO (oltre 19 milioni)? In definitiva, come ricomporre il tutto, dando avvio a una ricostruzione sociale e politica finalmente inclusiva e pacificata?
Troppi interrogativi, probabilmente, per un solo bilancio. Eppure, c’è una coerenza ininterrotta fra gli eventi traumatici della fine della Prima Repubblica e l’incapacità della Seconda di ricucire, anziché aggravare, lo strappo sociale provocato da quegli accadimenti; c’è una piena continuità (anche nei nomi di molti dei relativi artefici) fra quanto allora progettato e quanto infine realizzato e finalmente rigettato in fase referendaria. Allora - come ha rilevato Giorgio Vittadini - “per rendere i governi più duraturi, si scelse un sistema bipolare rappresentato da «uomini soli al comando», che hanno raccolto consenso con la propaganda favorita solamente da un sistema mediatico che non rappresentava la realtà”. Ora, per rendere incontrastato il tutto, si è cercato di perfezionare detto impianto, organizzando il nuovo sistema in modo più mirato e costituzionalmente definitivo.
Proprio una tale continuità, tuttavia, è stata recisa dal responso referendario del 4 dicembre 2016. Ecco perché la vittoria del NO ha già concorso al bene comune. Essa ha scongiurato il peggio; ha impedito l’avvento di una riforma pessima, tale da comportare la definitiva e irrimediabile lacerazione del Paese e la riduzione degli spazi di democrazia parlamentare e territoriale a discapito del pluralismo.
Che poi dalla bocciatura referendaria siano discesi a cascata effetti tali da far pensare a un insopportabile ritorno al passato (estenuanti consultazioni parlamentari, nomina di un Governo fotocopia ad eccezione del Presidente del Consiglio, conferma di ministri invisi per inettitudine e sfrontatezza) è un discorso diverso e nemmeno consequenziale. Tale soluzione è dipesa solamente dal modo con cui sono state approntate le riforme del Governo Renzi, ossia dalla superbia ingegneristica adottata al riguardo, pari solo a quella approntata per la progettazione del Titanic. Quest’ultimo fu costruito senza un adeguato numero di scialuppe di salvataggio, tale essendo la presunzione degli ingegneri sulla perfezione dell’opera e sulla conseguente inaffondabilità del transatlantico; di conseguenza, una volta colata a picco la nave, molti dei passeggeri si trovarono senza possibilità di salvezza. Del pari, anche la riforma costituzionale è stata realizzata senza attrezzare le riforme di contorno (elettorale, province, ecc.) per l’eventualità di un diverso responso referendario; di conseguenza, una volta respinta la stessa, anche le altre sono rimaste prive di ragione e il Paese si è trovato senza la possibilità di un ritorno alle urne. Di qui, la beffa di un governo politico sostenuto da un Parlamento ancora delegittimato (per essere stato votato con una legge dichiarata incostituzionale) e, al momento, incapace di licenziare un sistema elettorale finalmente conforme a Costituzione.
Eppure, a dispetto delle apparenze, l’esito del referendum del 4 dicembre presenta un risultato paradossale. Se accolto per la radicalità del pronunciamento, esso è tale da collocare il percorso del cambiamento nella giusta dimensione politica, prima ancora che istituzionale, sinora trascurata. Una volta attestata l’ineluttabile disfatta del metodo del riformismo imposto, esso è tale da aprire la via a soluzioni finalmente partecipate e adeguate; è capace di riaprire quei circuiti di dialogo democratico gradualmente chiusi nel venticinquennio trascorso.
Il cambiamento non è anzitutto in nuove regole da scrivere, ma nella funzione attribuita alle stesse, nel modo con cui i partiti valutano il rapporto con l’elettorato, nel ruolo che la politica riconosce alla realtà. Se la «gnosi» – come insegna la teologia – è l’andare oltre la realtà, il responso referendario restituisce alla realtà la conduzione del Paese. Ed è in tale ritorno alla realtà, che diviene possibile l’auspicata ricostruzione sociale e politica.
Commentando quanto aveva scritto nel proprio volume, Annah Arendt ebbe a chiarire che “La banalità del male” era sostanzialmente consistita nell’ “incapacità di pensare mettendosi al posto degli altri”. È questa capacità che torna a essere praticabile. Una volta venuto meno il fattore divisivo di una riforma scientemente coerente con il trascorso bipolarismo rissoso, famelico e inconcludente, torna a essere praticabile quella capacità di reciproca comprensione politica e sociale sinora negletta. Ed è questo il miglior augurio che può derivare da questo Natale così tormentato dagli eventi del mondo.

 
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