Tocca a Renzi dimostrare che il suo progetto è ancora attuale

di Mauro CALISE
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Lunedì 13 Febbraio 2017, 17:45
Farebbe quasi impressione – se non ci fossimo abituati – il voltafaccia con cui i media che contano hanno decretato la fine politica di Matteo Renzi. Un verdetto sancito a Sanremo dall’unico comico capace di contendere a Grillo il primato di battutista in libera uscita permanente effettiva. Pazienza se poi gli stessi media, in altra rubrica, si affannano a ricordare che gli italiani continuano a cercare un leader forte, e ancora più affannosamente lo cercano tutti i partiti che faticosamente continuano a sopravvivere a se stessi. In un sistema politico allo sbando, e senza che nessuno sia in grado di riprenderne in qualche modo il bandolo, l’unico punto fermo sembrerebbe l’autodafè dell’ex-premier e – a brevissimo – ex-segretario del Pd. Con due paradossi, sui quali – prima o poi – la Storia si prenderà le sue rivincite.
Il primo paradosso riguarda le cause del pasticcio in cui siamo, anzi la causa. La causa, ovviamente, è Renzi. È lui ad aver ridotto il paese alla impasse del tripolarismo, e senza una legge elettorale capace di produrre un vincitore, con relativa maggioranza. Ed è lui ad aver trasformato il Pd in un coacervo di correnti in lotta fratricida ed a rischio di scissione. Peccato che questa lettura potrebbe essere capovolta, anzi lo sarà certamente tra qualche decina d’anni – o anche di mesi, nel caso che Renzi riuscisse a resuscitare dalla cenere in cui è inciampato.
È stato proprio per cercare di sfuggire alla tenaglia del tripolarismo – ereditata da Berlusconi e dalla Ditta - che l’ex-Premier ha lanciato la sfida di una legge maggioritaria. Una sfida che ha esteso al corpo elettorale, chiedendogli di schierarsi – e dividersi – in due parti invece di tre: a favore o contro il referendum. Certo, questa sfida l’ha persa. Ma il pantano in cui ci ritroviamo è la conferma più cristallina che si trattava di una sfida obbligata. Non c’è peggiore idiozia che pensare che a vincere, in democrazia, sia sempre la parte giusta, o addirittura migliore. Come l’America di Trump sta mostrando al mondo intero.
Ovviamente, tutt’altra cosa è dire che, nel portare avanti una battaglia necessaria, si possano fare degli errori. E di errori, nella sua gestione e – soprattutto – comunicazione, Matteo Renzi ne ha fatti a tonnellate. La differenza, però, è sostanziale. Nel primo caso, se, cioè, l’ex-premier avesse preso la strada sbagliata, sarebbe bene che se ne stesse a casa. Nel secondo, se cioè, invece, avesse preso la direzione giusta ma senza avere la forza – o le capacità – per imporla, il quadro cambia drasticamente. Renzi avrebbe tutto il diritto – anzi, il dovere – di rivendicare la sua sfida. Accanto all’obbligo di correggere gli errori. Non di visione, ma di conduzione.
E qui veniamo al secondo paradosso, più insidioso e pericoloso. Su questo fondamentale discrimine, l’ex-Premier è apparso confuso. Esitante, zig-zagante. È stato così forte il contrappeso di immagine – e, forse, autostima – cui ha dovuto sobbarcarsi, che il segretario ha dato l’impressione di avere perso il filo strategico della propria missione politica. Questo è davvero un rischio mortale. E lo coglie, con la lucidità consueta, Mario Tronti ieri su Repubblica. Detto nel modo più brutale, non è chiaro – al punto in cui siamo – se Renzi creda ancora in se stesso. L’eccesso di autocritica in cui – dopo un primo momento di chiusura – si è prodigato è apparso poco convincente. Compresa la famosa immagine del rigore sbagliato. Altro che calcio di rigore. No, non era affatto facile far vincere il referendum e l’Italicum. Era difficile, difficilissimo. Perché significava sbloccare un sistema politico in balia di vent’anni di autodistruzione. E per farlo occorreva far passare – contro le oligarchie del suo partito - un pacchetto di riforme rimaste per decenni in naftalina.
In questa impresa, ardita e complicata, Renzi ha fallito. Ma oggi deve chiarire, al partito di cui è segretario e – soprattutto – a se stesso, se crede ancora in un progetto di radicale rinnovamento. E deve farlo con quel cambio di cultura – di simboli e di passione – che finora, da parte sua, è mancato. Se c’è questo cambio di passo, questa accelerazione ideale, avranno un senso anche le battaglie sulle regole congressuali e le scadenze elettorali che da domani scandiranno ogni giornata della politica politicante. Il segretario ha ancora dalla sua quel blocco del quaranta per cento che, appena due mesi fa, lo ha seguito con convinzione alle urne. E sa di poter contare su un seguito schiacciante nella base di militanti ed elettori Pd. Ma la vera domanda è se Renzi sa ancora contare su se stesso. L’Italia, oggi più che mai, ha bisogno di un leader in grado di rappresentare una speranza, con energia ed ambizione. Ma la salvezza del soldato Renzi dipende solo da lui.
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