In questa civiltà del rumore il silenzio è una virtù

Roberto Benigni e Paolo Villaggio ne "La voce della luna" di Federico Fellini
Roberto Benigni e Paolo Villaggio ne "La voce della luna" di Federico Fellini
di Antonio ERRICO
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Mercoledì 1 Novembre 2017, 17:12 - Ultimo aggiornamento: 17:13
Qualche settimana fa, in un editoriale su conformismo digitale e compiti dell’informazione, il direttore Claudio Scamardella ricordava un’affermazione di Salvatore Accardo, violinista di fama mondiale, a proposito del silenzio. Non conosciamo più il silenzio, ha detto Accardo. Ha detto che lui il silenzio lo ritrova soltanto quando si tuffa nel mare di Otranto e se ne va lontano.

Poi ha detto: “Occorre oggi un’educazione al silenzio, a questa cosa preziosa che nessuno cerca più, di cui quasi si ignora l’esistenza. Oltre il rumore, il vociare, il frastuono. È come un patrimonio che abbiamo perduto”. Poi Scamardella aggiunge: “La nostra contemporaneità, dettata dai tempi, dai modi, dagli usi e dai costumi della società tecnologizzata, ormai ignora fino a bandire l’attesa, la pausa, il silenzio. Non concepisce l’assenza e non giustifica il silenzio, imposto magari dalla riflessione e dallo studio. Il chiasso, ovunque, rappresenta solo il livello stratigrafico più alto dell’incontinenza verbale e scritta, dell’ossessione di apparire e di esternare, a cui ci hanno educato la rete e i social”.

Il chiasso, il rumore, talvolta il grido immotivato, l’espressione scomposta, la verbosità aggressiva, hanno mortificato la comunicazione, il mettere in comune, in comunione il pensiero. Si vive nel regno sconfinato del rumore. Ininterrotto. Invadente. Aggressivo. Secco. Assordante. Cupo. Che cresce, si spande, dilaga per le città, i paesi, i cortili, i vicoli, le piazze, il borgo antico; si insinua nelle case, aggredisce la quiete, impedisce il riposo o il lavoro.

Il rumore. Come il ronzio di uno sciame d’api amplificato e ossessionante. Come l’abbaio di una muta di randagi affamati. Come il karaoke che violenta la sera di una marina in estate. Un rumore che proviene da ogni direzione, in forma di frastuono, rimbombo, stridore, chiasso, fracasso, gazzarra, cagnara, baldoria, tumulto.

Un rumore fatto a strati. Che si accumula, si sovrappone, si confonde. Un rumore senza ragione, né giustificazione. Un rumore che fa il vuoto. Un rimbombo. È come il caos in uno stadio, come il gracchiare sordo delle vuvuzelas. Sommerge la parola, sommerge il pensiero. In questa condizione non c’è nessuno che parla, nessuno che ascolta. La relazione tra le persone diventa muta, separata dalla muraglia del rumore.

Centosessantasei anni fa, nei “Parerga e paralipomeni”, Arthur Schopenhauer diceva che se questo mondo fosse popolato da esseri realmente pensanti, sarebbe impossibile che il rumore di ogni genere fosse permesso senza restrizione e abbandonato all’arbitrio, come avviene perfino per i rumori più orribili e nello stesso tempo insensati.

Che cosa penserebbe, il filosofo, se si ritrovasse nel rumore che questo tempo dilata a dismisura, che nasce da se stesso, che esalta la sua funzione di cancellazione delle voci dell’uomo e della natura.

Probabilmente si ha urgente bisogno di una pedagogia del silenzio: per apprendere il valore dell’indugio, della riflessione, della pausa che consente l’approfondimento, per comprendere che il silenzio non soltanto viene dopo la parola, ma la precede e, precedendola, la predispone al suo significato, al suo senso autentico, non piatto, non impoverito dal luogo comune, non imbarbarito dalla banalità, dall’ovvietà meschina.
Spesso è la condizione del silenzio che permettere di apprendere di capire.

C’è una scena ne “La voce della luna” di Fellini, in cui Roberto Benigni, mentre nel blu della notte si avvicina alla bocca di un pozzo, dice: “Eppure io credo che se ci fosse un po’ di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire”.

Il silenzio non come negazione della parola, dunque, come subordinazione ad un sistema, ad una situazione, come espressione di una condizione di sudditanza a qualcosa, a qualcuno, non come mala taciturnitas, il tacere qualcosa che deve essere detto, ma come forma di pensiero profondo che si prepara alla parola autentica.

Se non c’è più silenzio, non c’è più parola vera. Se non c’è più silenzio, c’è soltanto la parola banale. Il gossip. Il chiacchiericcio. Il discorso disarticolato. Il concetto debole, senza struttura, senza profondità. Una fiera della vanità, dell’insensatezza. Un cicaleccio nei salotti mediatici. Lo schiamazzo al cellulare. Uno sciocchezzaio sia al chiuso che all’aperto. Un altare al nonsenso. Il nichilismo casareccio. Il cretinismo irreversibile. Un egocentrismo non superato.

Un vocabolario immiserito nell’espressione trita, o consunta, o volgare. Non ascolta più nessuno: in nessun luogo, in nessun contesto. Ognuno parla soltanto di sé e per se stesso. L’altro è assente. L’altro è strumento funzionale all’espressione di sé. Ma non del sé concreto, autentico, reale. No. Di quel sé inconsistente, superficiale, sbadigliante, narcisistico, tracotante.

Si parla soltanto e non si ascolta. Spesso ci si parla addosso. Se non si ascolta non si apprende, non si conosce l’altro che parla, non ci si confronta con i significati che porta la sua parola.

Una pedagogia del silenzio, un’educazione al silenzio significano la realizzazione di un processo di educazione e di rieducazione linguistica, che riattribuisca valore alla riflessione, al pensiero impegnato nell’elaborazione di una parola tesa alla ricerca di un’espressione ragionata e personale.

Fare silenzio, in questo tempo, è un atto di resistenza contro l’invasione della parola senza scopo, concentrata esclusivamente su se stessa, oppure scagliata come una pietra di fionda soltanto per il gusto di colpire, indiscriminatamente, incoscientemente, irresponsabilmente. Fare silenzio in questa civiltà del rumore assordante, è un’esperienza di virtù.

Allora, forse, dovremmo avere virtù e fermarci per qualche istante. Dovremmo avere virtù e fare silenzio. In silenzio leggere “La caverna” di Josè Saramago, fino ad arrivare a queste parole che pronuncia Cipriano Algor : “Si dice che ogni persona è un’isola, e non è vero, ogni persona è un silenzio, questo sì, un silenzio, ciascuna con il proprio silenzio, ciascuna con il silenzio che è”.

Dovremmo fermarci per qualche istante. Leggere queste parole, una per una. Interpretarle nel modo in cui ci viene, secondo il modo in cui si insinuano nel profondo di noi.
 
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