Abituiamo i nostri bambini a una lettura analitica del mondo

di Domenico LENZI
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Giovedì 18 Gennaio 2018, 23:39
Presso il Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo
dell’Università del Salento sarà attivato quanto prima un Master
di I livello in “Organizzazione e gestione delle Istituzioni scolastiche
in Contesti Multiculturali”. Tra i temi principali trattati troviamo
“Riflessioni ed analisi sull’apprendimento formale ed informale
in contesti multiculturali”.
In queste brevi note noi vogliamo dedicare la nostra attenzione a
tale tema, anche per i riflessi che esso inevitabilmente ha in situazioni
di apprendimento ordinario, dal momento che la multiculturalità
risulta essere una sorta di “lente di ingrandimento” nella dicotomia
formale/informale, che spesso viene intesa in termini di contrapposizione,
a scapito di una composizione complementare e costruttiva,
che invece potrebbe fornire benefici rilevanti all’apprendimento.
Una dicotomia strettamente connessa alla precedente, ma riferita
alla percezione, risulta essere “analitica/globale”; essendo il primo
aggettivo di quest’altra diade legato all’apprendimento formale,
mentre il secondo caratterizza l’apprendimento informale.
Dopo un lungo percorso evolutivo di qualche milione di anni,
circa 40mila anni fa la specie umana – grazie alla conquista del linguaggio,
che avrebbe favorito comunicazione e apprendimenti,
aprendo la strada verso l’attuale civiltà – acquisì lo status di “Homo
sapiens sapiens”. Ma non può esserci vera Sapienza senza attitudine
critica. E a favore di quest’ultima lo “strumento formale” svolge
un ruolo fondamentale. Ma si tratta di uno strumento che bisogna
conquistare e che la scuola deve aiutare ad acquisire, proprio
perché l’umanità se n’è impadronita dopo un lunghissimo percorso,
segno evidente delle difficoltà che vi si frappongono.
L’apprendere è una caratteristica dell’uomo fin dalla nascita. E
si tratta di apprendimenti spontanei e informali, privi dei lacci e degli
impedimenti che la formalità darà l’impressione di voler frapporre,
donde il rifiuto di questa. Perciò il bambino va educato quanto
prima alla “lettura” analitica del mondo in cui è immerso, rendendo
possibile questa lettura, allorché tutti gli elementi presentati sono
essenziali e nessuno di essi può essere trascurato. E da questo punto
di vista l’attenzione ai fatti numerici, purché semplici, naturali e
concreti, può essere un grimaldello ineguagliabile. Certo, è naturale
chiedersi perché la potenzialità aritmetica non sbocci altrettanto agevolmente
in ogni essere umano, così come accade per quella del
parlare. In realtà, siamo di fronte a capacità legate a ereditarietà genetiche
diverse, che molti studiosi fanno rientrare nel vasto bagaglio
degli istinti umani, che sono tanto più efficaci quanto più antico
è l’inizio del loro percorso filogenetico, che rappresenta il modo
di evolversi di una specie, o meglio di un genere.
L’uso sistematico delle dita – primo “laboratorio” per un bambino
– può costituire per lui un fondamentale avvio all’aritmetica già
a partire dai tre anni d’età, quando lo si spinge a indicare la sua età
con tre dita; anche se l’adulto dovrà aiutarlo ad assumere la posizione
corretta di queste, a causa di difficoltà di articolazione del tutto
fisiologiche, che col tempo saranno superate. Però sarebbe opportuno
intervenire già prima per dare sostegno a una naturale tendenza
verso il numero, tipica di ogni bimbo. Si tratta di attivare capacità
di cui ogni individuo è dotato grazie alla sua “memoria di specie”.
E il corpo umano, con la sua simmetria, può costituire un punto di
partenza importante verso la pluralità numerica attraverso la dualità
che esso presenta. Perciò la mamma o gli operatori del nido d’infanzia
dovranno essere solerti nel toccare in successione, contandole,
le due manine del bimbo, le due orecchie, le due guance, eccetera.
Non sembri banale. Ricordo un episodio di quasi sei anni fa, si
era in marzo, quando mostrai a una bimba – cinque anni compiuti
da poco – indice e medio di una mano chiedendole che numero esse
rappresentassero. La piccola rispose candidamente che si trattava
del “tre”. E avendole io detto che si trattava del “due”, lei ribatte:
«ma io il due lo faccio così», mostrandomi pollice e indice, intendendo
il suo come un segno unitario, che prescindeva dal contare,
come nel caso del giocatore di carte che per segnalare al suo partner
il possesso di una certa carta si tocca il naso o un orecchio.
La bimba era immersa in una modalità percettiva prettamente
globale-gestaltica, in cui spesso le informazioni che ci giungono
vengono completate sulla base di esperienze e ricordi: io il pollice
non l’avevo mostrato, ma per lei la rappresentazione che conosceva
e meglio si avvicinava alla mia era quella che le aveva fatto rispondere
“tre”. La stessa cosa accade quando qualcuno nella rappresentazione
di una famosa piazza riconosce la basilica di San Pietro dalla
facciata e dal colonnato che la caratterizza, anche se il pittore
non ha messo in evidenza “er cupolone”.
La modalità comunicativa di tipo globale è fondamentale, anche
perché rende più veloce l’acquisizione di informazioni. Però essa
va acquisita senza trascurare la modalità analitica, che spesso aiuta
a superare schemi mentali precostituiti che a volte possono indurre
in errore, soprattutto se essi sono legati a contesti culturali che non
sono i nostri.
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