A scuola conta non il voto, ma tutto ciò che sta dietro

di Antonio ERRICO
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Domenica 30 Aprile 2017, 17:25
È ormai diventato un caso nazionale la storia del professore di Casarano, dapprima sospeso dal preside e poi riabilitato dai giudici, per aver messo il voto 1 a un suo studente. Al tempo che frequentavo il secondo anno della superiore, ad un compito di matematica presi 2+. Siccome avevo consegnato in bianco, onestamente, con gratitudine considerai la generosità del professore, e per riconoscenza ci misi un po’ d’impegno riuscendo, con una fatica che Ercole non conobbe mai, a conquistare il 4, arrotondato. Poiché nelle altre materie mi trovavo in una condizione completamente diversa, mi fu risparmiata la riparazione a settembre. Onesto, dunque, il professore. Perché mi valutò come meritavo. Onesto anche il consiglio di classe che tenne conto della situazione complessiva.
Quando si valuta qualcuno, il concetto di fondo più profondo è l’onestà da parte di tutti: dei docenti e dei discenti. Il D.P.R. 22 giugno 2009, n. 122 (Regolamento recante coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni) all’art. 1, comma 2, recita: “La valutazione è espressione dell’autonomia professionale propria della funzione docente, nella sua dimensione sia individuale che collegiale, nonché dell’autonomia didattica delle istituzioni scolastiche”.
Allora, detto sommariamente: esiste una fase individuale, che è quella in cui il docente valuta conoscenze, competenze e abilità dello studente in una determinata disciplina; esiste una fase collegiale in cui il consiglio di classe, sulla base dei criteri definiti nel piano dell’offerta formativa, valuta tanto il processo di apprendimento quanto il rendimento complessivo finalizzando la valutazione all’autovalutazione, al miglioramento dei processi di conoscenza e al successo formativo attraverso l’individuazione delle potenzialità e delle carenze di ciascuno.
Se non si valutano in maniera adeguata e onesta conoscenze, competenze e abilità nella tale disciplina, diventa difficile promuovere un processo di autovalutazione, quindi l’impegno per il superamento delle carenze, quindi il successo formativo. Se non si tiene conto della dimensione complessiva del processo e degli esiti di apprendimento di ciascuno, si assume un’ottica parziale che non promuove lo sviluppo della persona.
La valutazione è un atto di una complessità estrema, che pretende scienza, coscienza e competenza. Se è vero che l’autonomia di un insegnante non può essere messa in discussione, è anche vero che non può essere messo in discussione neppure il rispetto dei vincoli generali e particolari.
Non si possono e non si devono avere pre-giudizi, ossia anticipazioni di giudizio rispetto agli esiti; non si possono e non si devono avere categorie rigide, perché il processo e l’esito di apprendimento di ciascuno sono unici e imparagonabili, come una vita; si devono contemperare tutti gli elementi che intervengono nella sfera della percezione di sé, dell’autostima, della motivazione. Si deve valutare esplicitando i criteri e facendo comprendere perché si sta valutando in quel modo, determinando nel valutato la convinzione che quel modo non solo è giusto ma assume un significato positivo, propositivo, funzionale al miglioramento, alla crescita, allo sviluppo. Si può mettere 2+ ma dandogli la possibilità di arrivare a 10. Non è il voto che conta; conta tutto quello che sta dietro, dentro. Contano la trasparenza e la condivisione. Prima della pedagogia c’è la democrazia. Prima di tutto c’è la persona.
Quando il termine valutazione è messo in relazione ai processi e agli esiti di apprendimento, ai contesti e ai contenuti della formazione, alle sue finalità e ai suoi obiettivi, si carica di complessità, di riverberi, di stratificazioni semantiche; pretende e impone una serie di interrogativi.
Per esempio: valutare per cosa, in base a quali condizioni, considerando quali prerequisiti e presupposti, in riferimento a quali strumenti di verifica, a quali criteri particolari e generali. Fra le tante cose che si possono dire, fra gli innumerevoli riferimenti alla pedagogia e alla docimologia che si possono fare, ci sono anche tre scene provenienti dalla letteratura.
La prima è una frase che Franz Kafka annota nei “Quaderni in ottavo”. Dice: “l’unica capace di giudicare è la parte in causa, ma essa, come tale, non può giudicare”.
Qualcuno potrebbe anche obiettare che Kafka non avesse competenze di pedagogia, psicologia, docimologia. Ma la smentita viene dalla straordinaria “Lettera al padre”, che quindi invalida immediatamente l’obiezione. Di conseguenza la sua affermazione merita una riflessione per nulla superficiale.
Dunque: l’unico soggetto che può valutare sia un processo che un risultato di apprendimento è lo stesso soggetto che realizza il processo e consegue il risultato. Probabilmente per il fatto che è l’unico in grado di conoscere, nel profondo, tutti gli elementi che hanno interagito, tutti i fattori che hanno condizionato l’apprendimento, in senso positivo o negativo: per esempio, il docente, l’ambiente, la motivazione, il tempo, il grado di attenzione, la propria predisposizione, le situazioni che hanno determinato l’attrazione o la distrazione.
In un tempo di ricerca di un sistema funzionale - e il più possibile condiviso da tutti i soggetti interessati - di valutazione degli apprendimenti, probabilmente si dovrebbe considerare l’opportunità di consentire anche alla parte in causa di intervenire concretamente. Perché, come diceva Kafka, è l’unica parte in grado di giudicare. Lo studente giudica se stesso e gli altri, comunque. Anche dopo, a distanza di anni.
Come giudica Gerhard. È la seconda scena. Gerhard è un bambino che compare in un libro di Peter Bichsel: un libro molto serio dal titolo un po’ buffo: “Al mondo ci sono più zie che lettori”. Gerhard viene bocciato all’esame di ammissione alla scuola superiore. Quindi passa ad un altro insegnante e si trasforma nell’allievo migliore. Diventa ingegnere. Dice Bichsel: quando mi incontra sogghigna; tutte le volte che lo incontro mi vergogno.
Gerhard è uno che non è stato messo nella condizione partecipare alla propria valutazione. Nessuno gli ha chiesto un’opinione sul motivo per il quale il suo profitto andava rasoterra. L’altra scena viene da un romanzo di Peter Hoeg. Un romanzo più bello del “Senso di Smilla per la neve”. S’intitola “I quasi adatti”. “Eravamo al parco giochi, lei era salita sulle rotaie. Si trovava forse a un metro da terra. Da lì mi gridò: guardami. Non fui io a rispondere, non feci in tempo. Fu una donna sconosciuta, anche lei lì con il suo bambino. ‘Come sei brava’ disse. Mi alzai senza pensarci, stavo per andare a staccarle la testa. (…) La bambina aveva chiesto attenzione. Aveva solo chiesto di essere guardata. Ma aveva ricevuto una valutazione. Come sei brava”.
Ecco. Non si può pretendere di valutare tutto. Non tutto deve rispondere a una valutazione. Poi, ci sono aspetti della personalità, particolarmente, ma ci sono anche conoscenze e competenze e abilità, che non possono essere valutate o delle quali non si può avere un riscontro nell’immediato, che non di rado si manifestano anni dopo. Per esempio sono quelle espressioni del sapere che determinano le visioni del mondo e della vita, le personali decifrazioni e interpretazioni delle cause e degli effetti dei fatti della storia; sono le idee che si hanno riguardo se stessi e gli altri e le relazioni fra il sé e l’altro da sé; sono comportamenti che si acquisiscono e che determinano la qualità dell’essere e dell’agire.
Non c’è voto con il quale si possa misurare questo sapere. Ma questo sapere è fondamentale, essenziale, per l’esistenza di ciascuno e per quella di una società.
 
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