L'assistenza che non crea sviluppo per il Mezzogiorno

di Isaia SALES
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Domenica 5 Agosto 2018, 20:28
Quest’anno le anticipazioni del rapporto Svimez sull’economia meridionale hanno coinciso con l’iter di approvazione del decreto Dignità voluto dal vice premier Di Maio. Ebbene, mentre l’istituto di ricerca delinea un quadro angosciante per l’economia meridionale dei prossimi anni, non una sola parola, non un articolo, non un comma nel decreto Di Maio è rivolto al Sud per tentare di fare fronte a questa situazione.  E il ministro del Mezzogiorno, Barbara Lezzi, di fronte al quadro sconfortante delineato dalla Svimez, ha rilanciato con forza il reddito di cittadinanza come panacea a tutti i mali che il rapporto elencava. Cioè, il partito che ha ricevuto un plebiscito di voti nelle regioni meridionali, non sa articolare un pensiero, una strategia, un programma per questa vasta area sottosviluppata che non sia il reddito di cittadinanza. Incredibile, ma purtroppo vero.

Personalmente non ho mai disprezzato la volontà dei cinquestelle di introdurre un sistema generale di sostegno al reddito per chi non lavora, ritenendo sacrosanta la necessità di un aiuto da parte dello Stato (in una società degna di questo nome) per chi non riesce a procurarsi un guadagno. E mi sono meravigliato che forze che appartengono alla storia della sinistra europea non abbiano avvertito l’urgenza di costruire in Italia un sistema di tutela della dignità delle persone e delle famiglie al pari dei cinquestelle, scoprendo solo negli ultimi mesi con il governo Gentiloni che l’assistenza non è una cattiva parola se rivolta a sopperire tramite lo Stato a ciò che il mercato non riesce a fare per tutti coloro che cercano un’occupazione e non la trovano.

Ma l’assistenza è assistenza, non sviluppo. È necessaria, sacrosanta, ma si deve affiancare a misure in grado di creare lavoro stabile, non sostituirle. E anche nel caso ci fosse occupazione stabile, assicurata da buone strategie di sviluppo, si deve sempre poter contare su di un sistema di tutela per chi non riesce ad entrare nel mondo del lavoro o per chi il lavoro lo perde. L’assenza di un reddito non può portare alla disperazione un essere umano e la sua famiglia. Ma i quasi due milioni di meridionali che sono emigranti negli ultimi anni non sarebbero certo sollecitati a tornare nei propri luoghi dalla presenza di un reddito di cittadinanza, ma solo dalla possibilità di un lavoro dignitoso che rispetti i loro studi e le loro aspettative. E non sono partiti perché mancava questo strumento, ma perché mancavano le opportunità di realizzarsi. E, dunque, i cinquestelle non prestino solo attenzione alle 600.000 famiglie meridionali caratterizzate dal fatto che nessuno dei suoi membri ha un lavoro (a cui va assolutamente fornito uno strumento minimo di sopravvivenza, comunque lo si voglia chiamare), ma anche ai tanti che sono andati via perché il Sud non dà loro una chance di dignitosa vita professionale. Nel Mezzogiorno in questo momento solo un giovane su quattro è al lavoro. E ben 200.000 laureati sono andati via negli ultimi 10 anni per trasferirsi al Nord o all’estero. Per formarli abbiamo speso 30 miliardi. Sono “la meglio gioventù”. Si sa perché sono andati via, ma non c’è ancora delineata una strategia di sviluppo per farli tornare. Non ci sono state politiche in grado di non farli partire, non ci sono strategie per rendere attraente e possibile il ritorno. È questa una emigrazione che ha una sua peculiare originalità rispetto a tutte quelle che l’hanno preceduta (fine Ottocento verso le Americhe, nel secondo dopoguerra verso il Nord d’Italia, la Svizzera e la Germania): è la prima emigrazione che impoverisce i posti da cui si parte, perché non ci sono rimesse che arrivano dagli emigranti ma al contrario le famiglie che restano debbono integrare con i loro risparmi il mantenimento dei figli nei luoghi dove sono andati a cercare lavoro.

Ministro Lezzi, lei pensa che con il reddito di cittadinanza ritornerebbero o non sarebbero partiti?

Certo, quest’anno la liturgia è un po’ cambiata rispetto alle presentazioni del rapporto Svimez degli anni scorsi. Gli altri anni arrivavano i responsabili del governo in carica arrabbiati per le cifre negative che l’istituto di ricerca snocciolava implacabilmente, quasi ritenendo che con quelle cifre si volessero mettere in discussione le “giuste” politiche che essi credevano di aver avviato (e che purtroppo le statistiche del malessere non registravano). Insomma, negli anni passati la liturgia prevedeva interventi rassicuranti da parte degli esponenti del governo, basate sull’assunto che le cose per il Sud non andavano così male come la Svimez si ostinava a dire, i quali sentivano il bisogno di diffondere un immancabile ottimismo per “le magnifiche sorti e progressive”: il Sud si sarebbe ripreso grazie alle politiche messe in campo, bisognava solo mostrarsi più ottimisti e saper leggere meglio i dati. Gli interventi degli esponenti del governo erano classicamente “svoltisti”, cioè annunciavano immediate svolte di fronte ai disastri segnalati dalla Svimez. Se poi partecipavano gli esponenti delle Regioni, la musica cambiava e le parole usate erano le seguenti: è vero che il Sud va male, ma la colpa è del governo centrale. E, poi, il governatore di turno si metteva a sproloquiare sulle performance della sua regione e a magnificare i provvedimenti adottati dalla sua giunta che presto avrebbero dimostrato tutto il loro valore. E immancabilmente a sostenere che le cifre di spesa sui fondi comunitari erano sbagliati, sostenendo di avere altri che dimostravano come la sua fosse una regione virtuosa per la spesa delle risorse europee. E l’anno scorso si sfiorò il ridicolo con due rappresentanti regionali convinti che il blando aumento del Pil meridionale fosse il risultato delle loro splendide politiche.

È indubbio che sulla mancata consapevolezza del dramma economico e sociale del Sud ha pesato il presuntuoso ottimismo dei governi nazionali e regionali. Ma da ora in poi peserà in negativo l’assurdo convincimento che il reddito di cittadinanza sia una risposta generale alla crisi strutturale dell’economia meridionale. In definitiva, siamo ancora in attesa di un buon modello di governo delle regioni meridionali (nonostante le tante chiacchiere sui grandi cambiamenti di cui nessuno si è accorto) e siamo in attesa di una strategia dei vincitori delle ultime elezioni all’altezza della fiducia riposta in loro dalle popolazioni del Sud. Scriveva il grande storico Rosario Villari sintetizzando l’essenza della questione meridionale: «Essa consiste in una radicale “rinuncia” ad utilizzare nel processo di ammodernamento del paese le potenziali risorse umane, economiche, politiche ed intellettuali del Mezzogiorno. È in questa forma che l’esistenza della questione meridionale ha fatto sentire il suo peso negativo lungo tutta la storia nazionale». Una colpevole rinuncia che continua ancora oggi.


 
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