Intervenire sulla tassazione se si vuole dare una spinta all'economia

di Guglielmo FORGES DAVANZATI
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Domenica 22 Luglio 2018, 20:22
L’economia italiana, come confermato da tutti i dati macroeconomici disponibili su fonti ufficiali, con esclusione della Grecia, è l’economia che cresce meno nel confronto con gli altri Paesi dell’Eurozona. La commissione europea stima un tasso di crescita nell’ordine del 2.3% per il 2018 e del 2.0% per il 2019, per l’intera Eurozona. Per l’Italia, l’incremento previsto del prodotto interno lordo è dell’1.5% del 2018 e dell’1.2% del 2019. Dallo scoppio della crisi, sempre con eccezione della Grecia, l’economia italiana è tendenzialmente cresciuta meno della media dell’Eurozona. A ciò va aggiunto un tasso di crescita delle regioni meridionali ulteriormente inferiore a quello medio europeo e sistematicamente inferiore a quello italiano. I fattori che ne sono alla base sono molteplici, ampiamente discussi in letteratura e non riconducibili al recente passato. Fra questi, un fattore sul quale è scarsa l’attenzione è l’elevata tassazione e soprattutto la sua ripartizione fra gruppi sociali.

La tassazione in Italia è sempre stata molto alta e superiore alla media OCSE (inferiore solo a quella dei Paesi scandinavi) ed è aumentata in modo significativo negli anni della crisi, soprattutto a danno della piccola impresa e del lavoro dipendente. L’incidenza dell’imposizione fiscale sul Pil si attesta, in Italia, intorno al 45% a fronte di una media europea di circa il 30%. Su fonte OCSE, si rileva che la distribuzione dell’onere fiscale in Italia è meno progressiva di quella vigente nei principali Paesi industrializzati, con una notevole incidenza dell’imposizione indiretta (le imposte sui consumi: tipicamente l’IVA). Imposizione regressiva è tale quando, in termini percentuali, i più ricchi pagano meno di quanto pagano i più poveri. Anche al netto della possibilità – per i primi – di allocare le proprie risorse nei c.d. paradisi fiscali; possibilità preclusa ai più poveri.

La ripartizione dell’onere fiscale a danno dei percettori di reddito basso è, al tempo stesso, (con)causa ed effetto della recessione in corso. E’ concausa perché attiva un doppio circolo vizioso.
1. La tassazione riduce la domanda interna e la riduce tanto più quanto più grava sui percettori di redditi bassi. Ciò a ragione del fatto che questi ultimi sono coloro che esprimono la più alta propensione al consumo. La riduzione della domanda, a sua volta, genera aumento del tasso di disoccupazione e conseguente perdita di potere contrattuale dei lavoratori, non solo nel mercato del lavoro, ma anche nella sfera politica. Il che rende possibili misure di ulteriore redistribuzione dell’onere fiscale a danno dei lavoratori (e a favore delle imprese, sotto forma di decontribuzioni). L’esito è recessivo, e dannoso per le stesse imprese (almeno per quelle che vendono sul mercato interno), dal momento che, mentre gli sgravi fiscali consentono alla singola impresa di essere maggiormente competitiva, potendo praticare prezzi più bassi, l’aumento della tassazione sui redditi più bassi comprime i consumi, dunque i ricavi e i profitti monetari per la collettività delle imprese.

2. In più, la tassazione grava prevalentemente sul lavoro in ragione della concorrenza fiscale che i Governi sono indotti a perseguire per attrarre investimenti e per evitare delocalizzazioni.
La “rivoluzione fiscale” promessa dalla Lega va nella direzione di accentuare questa dinamica perversa, mediante l’adozione della c.d. flat tax (tassa piatta). Non è mai stato sufficientemente chiaro cosa la Lega abbia inteso per “flat tax” e le ultime proposte a riguardo fanno riferimento alla riduzione degli scaglioni di reddito, accorpando in un’unica aliquota del 36% le fasce di contribuzione comprese fra i 28 e i 55mila e i 55 e i 75mila euro lordi annui, con una fascia di esenzione (peraltro già esistente: la c.d. no tax area). Le attuali aliquote IRPEF sono del 27% per un reddito annuo di 28.000 euro e del 43% per un reddito annuo del 43%. Fuori dai tecnicismi, è agevole comprendere che che si tratta di una riforma regressiva: che, cioè, fa pagare più tasse a chi ha redditi bassi. In più, va registrato che in quasi tutti i Paesi nei quali la flat tax è stata sperimentata (in particolare Illinois e Slovacchia, nei tempi più recenti), ha contribuito a generare recessione.

La propaganda leghista usa questi argomenti:
a) La tassa piatta contribuisce a semplificare il sistema tributario. Vero o accettabile. La contro-obiezione è banale: perché la semplificazione in quanto tale dovrebbe produrre crescita e maggiore occupazione?
b) La tassa piatta disincentiverebbe l’evasione fiscale. Mentre è certamente vero che un inasprimento della pressione spinge verso una maggiore evasione fiscale, non è affatto certo il contrario, cioè che abbassando le tasse diminuisca la propensione ad evaderle.
c) La tassa piatta incentiverebbe gli investimenti. E’ un argomento molto discutibile. Può essere sufficiente ricordare le rilevanti decontribuzioni accordate alle imprese negli ultimi anni, con effetti su crescita e occupazione pressoché nulli, per comprendere che si tratta di un effetto che potrebbe non verificarsi mai. Gli investimenti sono guidati dalle aspettative di profitto e queste ultime dalle aspettative in ordine all’andamento della domanda. Se i consumi ristagnano (e verosimilmente ristagneranno ancor più per effetto della maggiore tassazione sui redditi più bassi), vi è semmai da attendersi un peggioramento delle aspettative imprenditoriali e una riduzione – o un non aumento – degli investimenti.

Se poi, come ripetutamente dichiarato dal Ministro Salvini, la “riforma fiscale” che si sta preparando ridurrà l’incidenza della tassazione sul Pil (in continuo aumento dagli anni novanta), non si tratta di una vera rivoluzione: il provvedimento, infatti, si inquadra in pieno in una lunga serie di riforme del sistema tributario che lo hanno reso più ingiusto e che, rendendolo più ingiusto, hanno contribuito – soprattutto attraverso la caduta dei consumi e il rallentamento del tasso di accumulazione e dunque del tasso di crescita della produttività del lavoro – al declino di lungo periodo dell’economia italiana.



 
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