Cattivi e antieroi finalmente anche in (pay) tv

Una scena di "Gomorra"
Una scena di "Gomorra"
di Luca BANDIRALI
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Giovedì 1 Giugno 2017, 17:27
Per molti anni, in Italia, la narrazione televisiva è stata uno strumento di affermazione e conferma di valori condivisi dalla maggior parte degli spettatori. I protagonisti di queste storie sono preti, santi, magistrati, funzionari delle forze dell’ordine, medici, imprenditori illuminati, persone che hanno fatto del bene. Da quando la pay tv italiana ha cominciato a confezionare prodotti televisivi originali, e non soltanto a trasmettere serie americane su licenza, le storie sono cambiate e i personaggi non sono più gli stessi. I nuovi protagonisti sono i cattivi e gli antieroi: boss della criminalità organizzata, politici corrotti, gente che si sporca le mani per il proprio tornaconto, persino un papa giovane e sfrontato che non sopporta i fedeli.

Per la televisione italiana è una novità: per il pubblico statunitense è la regola da almeno due decenni, da quando una nicchia di spettatori ha sottoscritto il primo abbonamento al canale Hbo per seguire le avventure di Tony Soprano, il mafioso italoamericano che gestisce una cosca e va dall’analista. Le produzioni americane dei canali a pagamento spingono molto nella direzione antieroica perché l’obiettivo principale è far discutere, creare un caso di cui si parli; in questo modo sui giornali e sui social circola il titolo del prodotto e il nome dell’azienda che lo trasmette.

Sky ha portato in Italia questa strategia del brand, che ha funzionato finora egregiamente per le serie che già avevano un marchio vincente, nel quadro di quella che oggi gli studiosi chiamano narrazione “transmediale”: “Romanzo criminale” è una storia che il pubblico conosceva attraverso la cronaca, la letteratura e il cinema, così come quella di “Gomorra”. Nel caso di “The Young Pope” il brand era costituito anzitutto dal Vaticano e in secondo luogo da Paolo Sorrentino, icona dello stile italiano nel mondo.

Molto diversa è l’operazione “1993”, su Sky in questi giorni, a due anni dalla prima stagione intitolata “1992”. Ci sono molti elementi a rendere unica e originale questa serie italiana che racconta alcuni anni cruciali della nostra storia (si concluderà con il 1994): anzitutto il modello produttivo, che per la prima volta assegna il ruolo di showrunner agli sceneggiatori, come nel sistema americano. Qui Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo e Alessandro Fabbri creano un mondo narrativo ambizioso fondato su una combinazione di fiction e non-fiction, ossia calano alcuni personaggi di finzione (un pubblicitario, un poliziotto, una soubrette, un ex-militare, un’imprenditrice) in un contesto reale accuratamente ricostruito.

I caratteri finzionali hanno una forza inusitata, raramente posseduta dal nostro cinema recente, dove trovare un proletario paragonabile al leghista Bosco non è facile; eccellente anche la resa dei personaggi della realtà storica, in particolare la caratterizzazione di Antonio Di Pietro fatta da Antonio Gerardi. Una volta creato e popolato lo scenario, l’operazione di Rampoldi-Sardo-Fabbri sale di livello: si tratta di lanciare i personaggi lungo linee narrative capaci di trascendere i destini individuali. Ogni personaggio contribuisce (e qui sta il senso morale del racconto) al divenire della società stessa, ai suoi tumultuosi cambiamenti che non avvengono, come molti italiani amano pensare, per mano di grandi vecchi e manovratori occulti: la storia siamo noi, inclusi i cattivi, che non arrivano da Marte. Tutto il contrario di quello che sosteneva la vecchia fiction, anche quella di qualità: non a caso il titolo provvisorio di “1992” era “La peggio gioventù”, una reazione a quell’ostentato sentirsi dalla parte della ragione di certi autori di cinema e televisione.

Il pubblico di nicchia della pay tv sta premiando questo tipo di prodotto (siamo sul mezzo milione di spettatori), e rilancia il dibattito nella rete; così si misura l’impatto di un prodotto audiovisivo oggi. La sensazione è che questa strategia di comunicazione stia influenzando le scelte di produttori e broadcaster di quelle che si chiamavano generaliste. La Rai ha già lanciato serie di nuova concezione, da “Rocco Schiavone” a “La porta rossa”; Mediaset ha cambiato radicalmente la rotta mettendo a capo della fiction lo sceneggiatore di “Romanzo criminale”, Daniele Cesarano. A breve vedremo i frutti di questa svolta che asseconda un’innegabile tendenza della contemporaneità: il pubblico non va unito, va diviso.
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