Utilizzare l’inglese nelle università
ci fa stare in Europa

di Ferdinando BOERO
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Venerdì 2 Febbraio 2018, 12:58
Ho letto con molto interesse gli interventi sul Quotidiano di Rosario Coluccia e Guglielmo Forges Davanzati. Contestano l’uso della lingua inglese nei Progetti di Rilevante Interesse Nazionale. Rimarcano come sia anacronistico e provinciale pensare di scrivere in inglese un progetto in alcune materie, soprattutto in campo umanistico. Il Consiglio di Stato dà loro ragione. Un gruppo di docenti del Politecnico di Milano, dove da anni si insegna in inglese, ha contestato la decisione dell’Ateneo: vogliono insegnare in italiano! E i giuristi (che pubblicano quasi sempre in italiano) danno loro ragione.
Potrei anche concordare con loro, per le loro materie, ma che non si prenda una parte per il tutto. Nelle materie scientifiche la lingua è una sola: l’inglese. La babele delle lingue nazionali bloccherebbe il progresso scientifico in modo irreparabile e ogni comunità scientifica “nazionale” sarebbe costretta a riscoprire quello che le altre hanno magari già scoperto, non avendo la possibilità di attingere alle scoperte descritte in altre lingue.
Come potrebbe esserci collaborazione internazionale se ognuno parlasse la propria lingua? A dir la verità, poi, ci sono moltissimi libri specialistici o quasi di contenuto umanistico che sono pubblicati solo in inglese e che non vengono tradotti per ragioni di mercato. Penso a The origins of political order, di Francis Fukuyama, per esempio. Penso poi ai bandi europei, anche dedicati alle materie umanistiche, che mirano a amalgamare la comunità scientifica (e umanistica) europea, fornendo risorse per lavori che non siano ristretti all’ambito nazionale. L’Italia è fortemente deficitaria nell’ottenere questi fondi, perché una porzione della nostra accademia è restia all’uso della lingua inglese. Se si lavora professionalmente a un qualunque argomento, se non si conosce l’inglese si è fuori dal contesto internazionale.
I libri importanti sono pubblicati da University Press (editori universitari) di Università come Oxford, Cambridge, Princeton, Chicago. Coprono tutti gli argomenti, perché Università vuol dire conoscenza universale. Trattano anche argomenti di tipo umanistico. Non si può pensare che, oltre ad imparare benissimo la nostra lingua, i nostri studenti e, a maggior ragione, i nostri accademici non siano in grado di parlare in modo corrente e fluente almeno un’altra lingua. La prima è l’inglese, dopo la nostra. Hirohito, l’imperatore del Giappone, era considerato Dio nel suo paese. Era un simbolo della nazione nipponica. In Giappone è tradizione che gli imperatori si dedichino alle scienze naturali. Hirohito studiava gli idrozoi, e pubblicava i risultati delle sue ricerche in inglese. In inglese! Metteva anche la versione in giapponese, ma sapeva benissimo che se si fosse limitato alla propria lingua, il suo sapere non si sarebbe diffuso efficacemente.
Posso capire che una parte della comunità accademica ritenga che l’inglese sia superfluo per il progresso della propria disciplina. Non conosco così bene tutte le branche del sapere e concedo che in alcune si possa stare al passo con i tempi usando esclusivamente la lingua italiana. Ma in altre branche, per favore, non solleviamo polemiche di retroguardia. La comunità scientifica italiana si deve abituare a scrivere progetti in inglese, per andare a prendere, in Europa, i soldi che l’Italia mette nella cassa comune europea per promuovere la ricerca e che tornano in Italia in percentuali che dovrebbero far vergognare la nostra comunità scientifica. Perché, in Europa, i progetti sono tra i vari paesi membri e si scrivono in inglese. Le comunità scientifiche comunicano tra loro in inglese. I nostri studenti devono abituarsi a questo. Ma come potranno farlo se i docenti ne negano il valore?
Non si tratta di difendere la lingua italiana. Se parliamo di internazionalizzazione, non possiamo poi trincerarci nel particolare della nostra lingua. Sono irritato, per esempio, da parole inutilmente inglesi per descrivere concetti tipo jobs act, fiscal compact, spread. Equivalgono al latinorum dell’Azzeccagarbugli. Vanno smascherati quelli che usano l’inglese per impressionare un uditorio provinciale, ed è compito dei linguisti trovare parole italiane che rendano l’idea, denunciando questo inquinamento della nostra lingua. Se si parla italiano, italiano deve essere! Ma se si dialoga col mondo, soprattutto in campo accademico, la lingua è l’inglese. Ed è dannoso per i nostri studenti instillare l’idea che sia male adoperarla. Questo relega la nostra università ad un livello provinciale che non meriterebbe.

 
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