Tra verità e post-verità la strada giusta è la conoscenza delle fonti

di Stefano CRISTANTE
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Sabato 7 Gennaio 2017, 14:05 - Ultimo aggiornamento: 15:43
Da dove vengono le nuove parole? La parola “frigorifero”, ai suoi esordi, dovette sembrare parecchio strampalata: d’altronde anche l’introduzione del “portatore di freddo” nelle case degli italiani fu evento stupefacente, uno dei principali esempi di modernità di massa. La tecnologia, determinando il successo delle macchine nella vita quotidiana degli esseri umani, dà il nome alle cose e immette questo nome nelle relazioni sociali. Un mondo dove esiste ed è di uso comune la parola “frigorifero” è un mondo diverso da quello che non ne dispone. Mentre il nome del prodotto si diffonde, si crea un divario di status: quando tutti sappiamo che cosa rappresenta la parola “frigorifero” non possederne uno diventa sinonimo prima di non–agiatezza, poi di povertà e infine di completa anormalità. Ricostruire la società a partire dalle sue parole è compito del linguista, ma anche di tutti gli altri scienziati sociali, e può essere affrontato notando nuovi fenomeni. Giungono ad esempio al nostro orecchio e poi alla nostra vista tramite giornali e altri media espressioni caratterizzate dal legame tra una parola e il suffisso “post”, tradotte e adattate in genere dall’inglese. Non intendo il significato di “posteriore” o “successivo” negli aggettivi (come in post-bellico), ma quello applicato ai sostantivi. Mi riferisco alla parola “post-modernità” (con trattino o senza), portata nel mondo da diversi avamposti: la critica e la storia dell’arte, l’architettura, la sociologia, l’antropologia.
Mentre in arte e in architettura la postmodernità rappresentò estetiche mischiate, realizzando opere che citavano esplicitamente piramidi, monumenti barocchi e mille altri stili e icone di tutte le epoche precedenti, il postmoderno sociologico si è declinato come condizione del tardo capitalismo, oscillante tra un’intensificazione delle dinamiche moderne (individualismo, consumismo, centralità della scienza, società liquida eccetera) e una messa in discussione delle stesse, come riassunto nella formula della “fine delle grandi narrazioni novecentesche”.
Nei due decenni seguiti alla pubblicazione de “La condizione postmoderna” del ricercatore francese Jean-Francois Lyotard (1979) si sono dati battaglia altri termini costruiti nello stesso modo, che non hanno però avuto la stessa fortuna di “postmoderno”: termini come post-materialismo, post-capitalismo, post-fordismo, post-umano. Poi, qualche anno fa, di nuovo una parola che si afferma velocemente: si tratta di “post-democrazia”, un termine introdotto dal politologo inglese Colin Crouch (post-democracy, 2003). Il sistema economico-sociale, secondo Crouch, rende più aspre le disuguaglianze e mette in discussioni le certezze del Welfare novecentesco, rivelando un abbassamento della partecipazione democratica e una spettacolarizzazione continua ma inefficace delle dinamiche politiche.
Il parto più recente tra i neologismi è l’espressione “post-verità” (post-truth), e il dibattito riguarda un termine che è stato scelto dall’Oxford English Dictionary come parola dell’anno (2016). Il termine corrente che più ha a che fare con post-verità è “bufala”, una metafora che presenta – come ci avverte anche wikipedia – diverse etimologie possibili, ma che in sostanza vuol dire una bugia eclatante fornita in una veste che la rende in qualche modo credibile. Sempre wikipedia segnala una lunga consuetudine di bufale strepitose, dalla Donazione di Costantino ai Protocolli dei Savi di Sion. Perciò le bufale ci sono sempre state. Perché allora si diffonde un’espressione nuova e impegnativa come “post-verità” per definire il fenomeno? Perché un tempo le bufale erano fatto raro e costruito con paziente perizia, come testimoniano le ricerche degli storici e dei sociologi sui rumors della società di massa e sulla rete di diffusione organizzata a partire da salotti, taverne, teatri.
Oggi c’è Facebook e il più esclusivo Twitter, e ogni sei-sette messaggi (che, ironia della sorte, si chiamano “post”) è impossibile non imbattersi in notizie eclatanti, che possono risultare più o meno sospette fin dalla prima occhiata, ma che non mancano di suscitare la nostra curiosità. Si chiama quindi “post-verità” la nostra perenne esposizione alla menzogna, perché non c’è altro termine per esprimere la contraffazione deliberata della realtà. Le bufale hanno uno scopo commerciale (aumentare la propria attrattività pubblicitaria) e l’obiettivo di distorcere la realtà per suscitare emozioni rapide e primordiali. Sono uno strumento di lotta politica ed elettorale, e puntano a estremizzare le tensioni e a riempire la mente con immagini e dati falsi.
Facciamo la somma di quanto abbiano detto: certe parole con il prefisso “post” hanno avuto successo globale negli ultimi decenni. L’apposizione del prefisso ha rappresentato sia un prolungamento, in forme nuove, del fenomeno preesistente (post-moderno o postmoderno), sia uno scivolamento del significato in direzioni inaspettate (post-democrazia) o contrarie (post-verità). Ciò che accomuna il successo dei tre termini è l’impressione di poter attribuire movimento a una parola già nota: di scuoterla fino al capovolgimento pur restando nell’assonanza dell’immagine d’origine (moderno, democrazia, verità). Un “quasi” che ha in qualche modo a che fare con il nostro uso di “pseudo” che, come ci avverte il dizionario, “indica una somiglianza apparente”.
Viviamo in un mondo più o meno moderno, in un regime all’incirca democratico, dove ci piovono addosso di continuo delle notizie che sembrano vere. Ma, ricorda il dizionario, questa è solo la seconda definizione del termine “pseudo”: il primo è invece “elemento di composti dotti e del linguaggio scientifico nei quali significa generalmente «falso»”.
Il termine è dunque meno leggero di quanto sembri e nasconde un rischio: invece di compiere il destino della parola in gioco (modernità, democrazia, verità) stiamo consentendo il deragliamento di interi blocchi di valori positivi, distratti dall’ambiguità di espressioni che ci danzano intorno in modo irridente. È chiaro che, per una questione così complicata, soluzioni come le giurie popolari di Grillo sono solo altre bufale nella bufala. La responsabilità di disvelare i raggiri retorici della nostra epoca ricade su tutti noi: il lettore del XXI secolo ha a disposizione una quantità di flusso informativo e audiovisivo infinito e deve destinare una parte del tempo a capire le notizie e i loro doppi e tripli significati. Gli uomini del passato conoscevano i nomi delle stelle, che noi abbiamo dimenticato. Lo facevano per necessità, così come noi, se vogliamo orientarci nel nostro mondo, dobbiamo saper leggere i media e selezionare le nostre fonti senza affogare nella suggestione delle parole.
 
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