Se il Sud si isola e si adagia nell'immobilismo movimentista

Se il Sud si isola e si adagia nell'immobilismo movimentista
di Claudio SCAMARDELLA
6 Minuti di Lettura
Domenica 7 Maggio 2017, 19:01 - Ultimo aggiornamento: 8 Maggio, 13:48
Il voto dei francesi farà tirare questa sera un sospiro di sollievo a quanti ancora coltivano il grande sogno di un’Europa unita e federata, a quanti vogliono continuare a vivere in società aperte e vedono anche ricchezza, non solo rischi e paure, nell’incontro e nell’integrazione tra civiltà diverse. Tirerà un sospiro di sollievo anche chi è convinto che la politica sia costruzione di senso e direzione di marcia, non la somma indistinta di pulsioni e istinti che maturano nella cosiddetta pancia dei popoli. E chi, più in generale, crede nella rifondazione della democrazia rappresentativa fatta da uomini in carne ed ossa, invece che nella fredda democrazia del clic. Perché - come insegnano i politologi e come, del resto, emerge dalle consultazioni in rete del M5S, checché ne dica Grillo - la democrazia non è tanto nell’atto finale della scelta di una maggioranza, quanto nella discussione e nel confronto che porta alla formazione di una maggioranza. 
Intendiamoci, è ancora presto per dire che i venti di rivolta anti-sistema nei Paesi occidentali abbiano raggiunto il picco più alto della parabola e stiano cominciando a rifluire, anche alla luce dei tardivi “pentimenti” dove questo processo si è manifestato negli ultimi tempi in modo virulento e, a tratti, minaccioso. Però, alcuni segnali appaiono andare in questa direzione. 

Dopo l’Olanda un mese fa, la Francia oggi, e quasi certamente la Germania in autunno si può cominciare a dire che la rabbiosa voglia di spaccare tutto, costi quel che costi pur di rovesciare le élite, non ha una deriva irreversibile. Del resto, anche il voto di domenica scorsa in Italia, con l’affluenza alle primarie per la leadership del Pd, e i sondaggi nelle intenzioni di voto pubblicati nelle ultime ore sembrano essere in linea con questa tendenza. 
Sarebbe, tuttavia, un colossale abbaglio pensare che il brodo di cultura nel quale è cresciuta e si è alimentata la squassante ondata di protesta e di ribellione degli ultimi anni sia stato prosciugato. Tutt’altro. Il fatto che la paura del salto nel vuoto cominci a essere più forte della rabbia generata dalla disperazione non significa che la stagione della “grande regressione” sia già archiviata. Nello stesso voto dei francesi, si scorgono i segni di uno sconvolgimento epocale del sistema politico d’Oltralpe che mette a rischio la governabilità. Occidente, Europa e Italia restano, insomma, in mezzo al guado. Molto dipenderà dall’efficacia delle risposte di governo, dalla capacità della politica e delle democrazie di rinnovarsi e di affrontare i bisogni e le aspettative di chi soffre, dei dimenticati, di chi finora ha pagato prezzi altissimi con la globalizzazione e l’innovazione. Mai come in questo momento c’è bisogno di riscoprire e dare un senso autentico a parole fin qui troppo abusate come riformismo e capacità di governo.

Ciò è ancor più vero in Italia e, soprattutto, nel Mezzogiorno, dove processi e fenomeni globali si manifestano inevitabilmente con qualche anno di ritardo - come gli stessi effetti della crisi del 2008 e della successiva grande recessione - e assumono tratti distintivi propri, intrecciandosi con le già pesanti condizioni economiche e sociali, con la vecchia sfiducia verso chi governa e con la delusione per le troppe occasioni mancate, con il rapporto storicamente debole, per non dire labile tra Stato e cittadini. Il risultato è che, mentre altrove, si scorgono segnali di argine alle forze anti-sistema, nel Mezzogiorno qualcosa di profondo e anche di lacerante è venuto maturando negli ultimi anni e sta prendendo forma e sostanza dentro la politica e nello stesso governo delle istituzioni locali. Potremmo dire che qui, senza essercene accorti, le forze (e i personaggi) anti-sistema sono già al governo e stanno producendo non pochi guasti con la collocazione del Mezzogiorno all’opposizione a prescindere, perseguendo un velleitario auto-isolamento in risposta alla lunga separazione delle classi dirigenti nazionali da questa parte del Paese.

Per la prima volta, dall’unità d’Italia ad oggi, siamo in presenza di un sentimento che accomuna diffusamente ceti emarginati e disperati, ceti garantiti e protetti, segmenti ampi della borghesia e delle élite intellettuali della società meridionale. È un sentimento corroborato da un’accentuata radicalizzazione dell’identità territoriale, una sorta di “suddismo” come risposta al vecchio leghismo settentrionale e alle nuove paure create dalla globalizzazione, che prende forma in un populismo identitario pre-politico e post-politico. Il ribellismo diffuso e trasversale è accompagnato da una radicalizzazione dei linguaggi e dei comportamenti, variante della rivolta contro le élite nelle società occidentali, e ha trovato altre bandiere e altre rappresentazioni rispetto a quanto è avvenuto nelle restanti parti del Paese e dell’Europa. Non è un caso che in molte aree del Mezzogiorno questa forma di ribellismo e di protesta non prende la via del sostegno al movimento di Grillo. Non solo. Nemmeno è un caso che nel Mezzogiorno questo sentimento si è già fatto governo in molte istituzioni locali e regionali, con l’emergere di personaggi politici e rappresentanti istituzionali di difficile definizione, capaci però di avere un forte seguito e di conquistare e, perfino, di affascinare (con le parole) anche la platea nazionale.

I casi di Napoli, di Palermo, della Puglia, della Sicilia e di alcuni comuni del Salento sono emblematici. Si tratta spesso più di capi del popolo che di governanti, Masanielli in formato moderno più propensi a cavalcare la protesta sociale e l’opposizione nel nome delle identità territoriali che a incanalarle in soluzioni di governo. Anzi, sovente sono gli stessi governanti che non disdegnano di sfruttare la piazza, sia quella reale sia quella mediatica, per nascondere le proprie incapacità realizzative. E sovente chi è chiamato a governare sembra essere convinto che la “non soluzione” dei problemi sia più efficace della stessa “soluzione”. Ad emergere è una strategia che potremmo definire con un ossimoro: “immobilismo movimentista” di governo o, se si preferisce, “movimentismo immobilista”, il cui collante è la collocazione del Mezzogiorno all’opposizione della politica nazionale. Una strategia che consente di non perdere consenso e di sopravvivere politicamente, ad esempio nel nostro territorio, a casi come la xylella, la Tap, l’Ilva, la sanità. 

Ma se il “movimentismo immobilista” potrà facilitare nel breve periodo la costruzione di carriere politiche e fortune personali, non gioverà certo alle popolazioni meridionali perché non genera governo e perché lascia incancrenire i problemi. A Napoli come in Puglia, in Sicilia come nei comuni del Salento occorre oggi tutt’altro che l’“approccio da consenso” ai problemi sul tappeto e alle emergenze territoriali. La complessità del momento storico meriterebbe il linguaggio della verità su temi - tanto per restare alla Puglia - come xylella, Tap, Ilva. Meriterebbe l’indicazione di soluzioni autentiche anche se non sempre popolari, la propensione a leggere, studiare, approfondire, impossessarsi fino in fondo dei problemi per individuare e proporre le risposte. Meriterebbe cultura di governo e approccio autenticamente riformista per far rientrare il Sud da protagonista nei binari della storia, dopo secoli di emarginazione e isolamento. Invece, facendo leva sulla radicalizzazione identitaria, governare - cioè scegliere, decidere, risolvere - diventa quasi un optional. E così chi è stato eletto per assumersi le responsabilità si limita ad assecondare le leggi dell’apparenza, della politica spettacolo, dei post su facebook, a stare sempre dalla parte di chi ha qualcosa da urlare o da protestare. É una variante della democrazia del clic: importante è essere presenti e occupare gli spazi, non ciò che si dice e ciò che si fa.

Non sarà semplice per il Mezzogiorno uscire da questa morsa. La cultura riformista non si inventa, è faticosa e spesso impopolare: ai governanti dallo sguardo corto non conviene perché non produce consensi nell’immediato. Difficile, perciò, che siano gli stessi interpreti della “radicalizzazione identitaria” e di un “suddismo” in salsa leghista a ravvedersi. Tocca piuttosto agli stessi meridionali aprire gli occhi quanto prima e accorgersi del grande abbaglio che li sta accecando. Proprio come accadrà oggi in Francia.
© RIPRODUZIONE RISERVATA