Clochard bruciato vivo, quelle immagini finite in rete che dovevano rimanere segrete

di Paolo Graldi
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Domenica 12 Marzo 2017, 00:10
È questo uno dei casi in cui si stenta a trovare le parole per dirlo, per descriverne l’essenza e i confini. Quelle che suggeriscono di parlare di orrore, di assenza totale di umanità, di rabbia incontenibile, d’improvviso non sembrano adeguate a rappresentare un accaduto infinitamente banale nella sua efferatezza assoluta.

La morte di Marcello Cimino, un uomo mite e solitario che aveva scelto un angolo di marciapiede, un giaciglio provvisorio e il freddo della notte pur avendo famiglia, una moglie e due figlie minorenni, è l’abisso nel quale il gesto di un uomo si spinge per ragioni che neppure la follia e il rancore più sordo sapranno e potranno spiegare. E’ stato ucciso nel modo più mostruoso: bruciato vivo. Il suo assassino ha confessato: è un benzinaio di 45 anni, Giuseppe Pecoraro. Era convinto che la vittima gli insidiasse la moglie.

Abbiamo visto e rivisto sul web le immagini dell’incappucciato che a mezzanotte rovescia sull’uomo che riposa avvolto in una coperta un secchio di carburante e che poi si avvicina alla vittima scossa da quel brusco risveglio per fare divampare le fiamme. Una esplosione di fuoco che lambisce il killer gli lascia addosso il segno indelebile del suo gesto.

Non doveva bastare l’avvertenza che la visione dei fotogrammi ripresi da una telecamera di sorveglianza avrebbero urtato la nostra sensibilità. Quelle immagini non andavano divulgate, non dovevano essere mostrate a tutti nello spazio incontrollabile della rete come materiale di un qualsiasi repertorio criminale, ma restare segrete, utilissime, formidabilmente importanti per le indagini. Divulgarle, violando leggi per le quali la polizia ha aperto un’indagine parallela a quella per l’omicidio volontario premeditato, supera i confini di una deontologia che non lascia e non consente al dovere di informare, inderogabile, anche il permesso di abbattere qualsiasi pietà. Molti telegiornali, pur disponendo del corto, hanno giustamente rinunciato a mandarle in onda così come accadde per i filmati dei taglia teste dell’Isis che le utilizzavano per la loro propaganda del terrore. 

Quei passi furtivi dell’assassino, la visione del secchio che rilascia il liquido e che invade quel corpo inerme e poi il deflagrare delle fiamme si configurano come una violazione di un diritto che non ci appartiene. Chi, disponendo del filmato per un utilizzo investigativo, si è assunto la responsabilità di divulgarlo, dovrà essere chiamato a spiegare il senso di una deroga a principi che sovrastano ogni altra utilità. 

Ci deve essere un limite nella protezione della riservatezza delle indagini e del materiale che le nutrono: bisogna recuperare, senza falsi moralismi o appellandosi alla libertà di informare il confine invalicabile davanti al quale ci si deve solo fermare. 

Da quella visione non abbiamo imparato niente che ci aiuti a capire meglio e di più l’accaduto. Qui siamo nel regno della vendetta pura. Il volto e il nome dell’assassino ci riportano alla banalità del male che non conosce fondo. Rivalità, gelosia e crudeltà nutrite dall’emarginazione, dall’ignoranza. 

Ora che abbiamo scoperto la realtà dei fatti, fermiamoci a riflettere sulla complessità e vastità dell’odio liquido che attraversa, impregna e esplode vicino, accanto a noi, solo in apparenza inspiegabile. Una simile esplosione di furore omicida segnala, per la sua dinamica, l’abisso di una forma di crimine che riusciamo a stento a comprendere, se c’è qualcosa da comprendere.

La loggia dei frati cappuccini, al riparo di un cancello, non è bastata a Marcello Cimino per ritenersi protetto: il fuoco che lo arde vivo cogliendolo nel sonno rivela l’abiezione infinita di un comportamento che purtroppo ritroviamo anche altrove, anche nei giorni scorsi, tra il rogo di un campus di immigrati sgomberato in terra di Puglia. 
Il fuoco come barriera, come forma di protesta, come ultimo assalto. Il rischio è che stiamo forse avviandoci verso una crudeltà che attinge nella disperazione la sua ragione d’essere. 

Campanelli d’allarme che vanno colti e raccolti perché il disagio sociale rischia di farsi più acuto e doloroso, tale da spingere a gesti inauditi. Il clochard bruciato vivo nel sonno è forse un caso isolato, un frammento di infermo tra noi, e perciò stesso difficilmente replicabile, e tuttavia è anche un avvertimento che non va rinchiuso nella sua eccezionalità, solo per rassicurarci. 

E’ un segnale di abiezione suprema, certo, ma anche qualcosa di più e forse di allarmante. Ci parla dell’odio liquido, materiale altamente infiammabile.
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