Egitto, attacco in moschea: dietro il cambio di strategia i jihadisti sbandati di Raqqa

Egitto, attacco in moschea: dietro il cambio di strategia i jihadisti sbandati di Raqqa
di Fabio Nicolucci
4 Minuti di Lettura
Sabato 25 Novembre 2017, 09:29 - Ultimo aggiornamento: 12:30

Il corpo dell'Egitto è martoriato da molto tempo dal flagello del terrorismo. Questo popoloso paese è infatti non solo la capitale culturale del mondo arabo, ma anche il crocevia di una regione dove le contraddizioni della globalizzazione contribuiscono al jihadismo. L'Egitto è un attore panarabo, importante nel Levante - in particolare verso il Golfo e sulla striscia di Gaza - ma anche nel Nordafrica. Soprattutto nel decisivo teatro libico. Non è certo nuovo ad essere percorso e segnato da questa piaga contemporanea. Eppure l'orrenda strage della moschea di ieri nel Sinai del nord sembra avere caratteri inediti, e piuttosto che l'ultima di una lunga serie sembra essere la prima di una nuova fase. A segnare questo carattere di inquietante novità sono le modalità e l'obiettivo dell'attacco.

LE MODALITÀ
Per quanto riguarda le prime, questa volta la scelta è stata per un'azione di guerra, più simile alla battaglia di Mosul o di Raqqa che agli attacchi sinora effettuati contro caserme della polizia, posti di blocco dell'esercito egiziano, chiese copte o obiettivi turistici. Questa volta l'obiettivo non era terrorizzare bensì sterminare. Si è sparato con tecniche da commando sui fedeli in fuga, e perfino sulle ambulanze che portavano via i feriti. Qualcosa di molto diverso dai recenti attacchi da parte dell'Isis del Sinai del 9 aprile scorso, contro le chiese copte di Tantra e Alexandria, o del 18 aprile contro il monastero di Santa Caterina.

Se, come è verosimile, questo attacco è stato effettuato dall'Isis del Sinai, è probabile che vi abbiano partecipato e magari lo abbiano addirittura concepito combattenti dell'Isis in fuga dal teatro di guerra siro-iracheno. Combattenti che con loro portano probabilmente non solo l'abitudine ad ogni efferatezza e alle battaglie campali ma sono anche sconfitti e in fuga, e dunque preda di una sorta di torvo pessimismo amorale privo di ogni freno inibitorio o politico. Questo ha prodotto l'attentato più sanguinoso della storia del terrorismo egiziano. Ha ragione il ministro Minniti, che avverte del rischio che il tumore spappolato a Raqqa e Mosul sparga le proprie metastasi prima nel teatro regionale e poi magari raggiunga anche casa nostra. Del resto proprio questa è stata la storia del primo Afghanistan, dove i foreign fighters in uscita da quel teatro hanno costituito il nucleo fondativo di A-Qa'ida.

Ma a dirci che questa volta l'elemento regionale, cioè l'imprinting dello Stato Islamico in quanto tale, è probabilmente non solo presente ma anche preponderante rispetto alla pur lunga scia di sangue per mano locale che segna la recente storia dell'Egitto, è la scelta dell'obiettivo.

IL BERSAGLIO SUFI
Perché si è colpita una moschea? E non un reparto dell'esercito egiziano, una struttura dove fossero presenti turisti occidentali o un obiettivo di una differente religione? Perché nell'Isis è centrale la dottrina del takfir: cioè quella dottrina islamica wahhabita che prevede la possibilità di includere tra gli infedeli, fino a prevederne la morte, anche dei mussulmani. In primis, i sufi e gli sciiti, ma non solo. Una concezione tanto estremista da essere stata ripudiata perfino da al-Qa'ida, e per questo divenuta identitaria per lo Stato Islamico e il Califfato, che l'ha usata per marcare la differenza tra le vecchie e oramai bolse organizzazioni terroristiche e la propria pimpante novità, offerta alle giovani leve del jihadismo.

IL DIBATTITO TEOLOGICO
Quando però l'Isis ha cominciato ad entrare in crisi per le perdite territoriali subite dalla coalizione internazionale, il dibattito teologico interno sui limiti nell'applicazione di questa dottrina è divenuto tutto politico. Si sono confrontate due visioni. Una meno estremista, capeggiata dal primo ideologo dello Stato Islamico al-Bin'ali, che segnalava la necessità di non farsi troppa terra bruciata intorno, e di non punire per esempio anche coloro che ignoravano i veri precetti, e soprattutto coloro che li escludevano dalla pena scusando la loro ignoranza. Se infatti avvertiva al-Bin'ali, poi ucciso da un drone Usa nel maggio scorso si fosse andati in questa implacabile direzione, si finiva con avere un takfir senza fine che avrebbe divorato tutti e tutto. Ma a al-Bin'ali replicavano i sostenitori dell'intransigente al-Hazim, che sostenevano invece come anche l'ignoranza fosse da punire, così come coloro che la scusavano. Tra le ceneri fumanti di Mosul e poi di Raqqa, pare abbia vinto quest'ultima tendenza estremista pur nell'estremismo. Il terrificante attacco ieri alla moschea sufi nel Sinai del Nord, sembra portare lo stesso dna malato. Per ora è arrivato nei territori più contigui. Non passerà molto tempo e diventerà un nostro problema.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA