Renzi congela le dimissioni, l'irritazione di Gentiloni. Tra i dem scoppia la rivolta

Renzi e Gentiloni (lapresse)
Renzi e Gentiloni (lapresse)
di Alberto Gentili
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Martedì 6 Marzo 2018, 08:48 - Ultimo aggiornamento: 13:52

Non poteva finire peggio. Il crollo del Pd, la dimissioni fantasma di Matteo Renzi, le accuse del segretario a Sergio Mattarella e a Paolo Gentiloni rei di avergli impedito di andare alle elezioni l'anno scorso, il no a un governo con i Cinquestelle, innescano la bagarre. Tutti contro tutti. E tutti in armi. Con i big del partito che tagliano i ponti con il segretario.

E' una giornata buia per il Partito democratico. E non solo perché in meno di 4 anni i consensi si sono dimezzati: dal 40% delle europee al 18% di ieri. Complice il clima pesante del Nazareno, i veleni e i sospetti, ma soprattutto le accuse di Renzi al premier e al capo dello Stato, innescano la reazione di Gentiloni e il gelo del Quirinale. «Sono sconcertato», fa sapere ai suoi il presidente del Consiglio, «uno può decidere di dare o non dare le dimissioni. Ma è inaccettabile che chi ha perso le elezioni addossi la colpa a me e al capo dello Stato perché gli avremmo impedito di votare in aprile o nel settembre scorsi. Non solo, ora la responsabilità sarebbe anche di Minniti che non ha saputo vincere il suo collegio a Pesaro».

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Proprio nei minuti in cui Gentiloni confida il suo sconcerto, Dario Franceschini, Marco Minniti, Graziano Delrio, Andrea Orlando e Luigi Zanda che avevano chiesto «collegialità» nella gestione della fase post-elettorale, decidono di reagire. In mattinata era stato raggiunto un simil-accordo per le dimissioni immediate e poi la reggenza al vicesegretario Maurizio Martina o al presidente Matteo Orfini. Invece, in conferenza stampa, alle sei di sera Renzi annuncia le dimissioni differite. Valide solo dopo che si sarà formato il nuovo governo e dopo che l'assemblea nazionale del partito le avrà ratificate. E attacca gli ormai ex alleati: «Il prossimo segretario sarà scelto con un congresso vero, con le primarie. Non da caminetti ristretti di chi immagina il Pd solo come luogo di confronto tra i gruppi dirigenti».

LA RIVOLTA
A impugnare la penna per stroncare la mossa del segretario è Zanda, il capogruppo uscente in Senato molto vicino a Gentiloni e a Mattarella: «La decisione di Renzi è incomprensibile, le dimissioni di un leader sono una cosa seria. O si danno o non si danno e quando si decide di darle si danno senza manovre. Quando Veltroni e Bersani si sono dimessi, lo hanno fatto e basta. Un minuto dopo non erano più segretari».

La rivolta esplode. Ecco Anna Finocchiaro: «Annunciare le dimissioni e non darle dopo una sconfitta di queste dimissioni è da irresponsabili». Ecco Orlando ed Emiliano: «Renzi si è chiuso nel bunker ed è ambiguo, siamo davanti alle dimissioni non dimissioni. Subito il congresso!». Al coro si unisce il ministro Carlo Calenda: «Non commento il percorso congressuale e il timing delle dimissioni» non essendo del Pd, «ma trovo fuori dal mondo l'idea che ha responsabilità della sconfitta sia di Gentiloni e di Mattarella».

A sentire Renzi e i suoi, la decisione di rendere operative le dimissioni solo dopo il via libera al nuovo governo serve «ad evitare inciuci e impedire che vengano ratificati accordi già siglati sottobanco con i Cinquestelle. La prova? Un attimo dopo la conferenza stampa del segretario, il grillino Di Battista si è gettato a capofitto nella mischia accusando Matteo di frantumare il Pd». E afferma Gennaro Migliore: «Bisogna avere il coraggio di fare contestazioni sul merito e non sul metodo. Il contenuto principale della posizione di Renzi è quello di rispettare il risultato delle elezioni e di andare all'opposizione. Se questo è il punto che si vuole mettere in discussione lo si dica con chiarezza. Un'eventuale nuova collocazione del Pd (stampella del M5S o responsabile per far nascere il governo di Salvini) la può decidere solo un congresso».

IL NODO DEL M5S
Insomma, è guerra. Ed è guerra sul rapporto con i Cinquestelle. Sul «senso di responsabilità» che negli ultimi anni ha spinto il Pd a sostenere prima il governo di Mario Monti, poi quello di Enrico Letta e di Gentiloni. «Ma ora la nostra responsabilità sarà quella di stare all'opposizione», scandisce Renzi, quasi a voler stoppare un eventuale pressing di Mattarella a sostenere un esecutivo a guida grillina o leghista.

In più, sullo sfondo e neppure tanto, c'è il nodo della segreteria. Renzi si tiene stretti i galloni di leader per sostenere al congresso (si farà se non si andrà sparati a nuove elezioni) un suo fedelissimo. Ma ci sono Minniti e Delrio che scaldano i muscoli. E c'è Nicola Zingaretti che, forte della vittoria nel Lazio, sarebbe pronto a scendere in campo. Con un atout: è l'unico ad aver vinto nella Waterloo dem e a poter ripartire dalle macerie. Con un problema: difficile sommare l'incarico di governatore a quello di segretario.

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