Silenzi e complicità: così le “Fse-Bancomat”
nascondevano i conti

Silenzi e complicità: così le “Fse-Bancomat” nascondevano i conti
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Domenica 4 Febbraio 2018, 17:30 - Ultimo aggiornamento: 21:36

Confusione. Se avessero dovuto cercarsi una parola d’ordine, certamente avrebbero scelto quella. E a ragion veduta, visto che l’unico modo per evitare il crollo del castello di sabbia era per davvero la confusione.
Il castello di sabbia è il bilancio delle Ferrovie Sud Est negli anni caratterizzati dalla gestione finita sotto il faro della Procura di Bari e contestata all’ex amministratore unico Luigi Fiorillo e agli altri indagati. La confusione era la “regola” in una contabilità architettata - secondo il pm Roberto Rossi - in modo tale da impedire “ogni tentativo di ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari”. Insomma, una macchina a suo modo perfetta: i soldi entravano e uscivano su e da un unico conto corrente (il 13000 aperto presso la Banca Nazionale del Lavoro), decine di milioni di euro finivano in spese folli e consulenze d’oro che avrebbero arricchito i futuri indagati ma anche amici e amici degli amici, il parco mezzi non veniva rinnovato e curato come avrebbero dovuto fare, il servizio non migliorava e gli utenti si accontentavano di viaggiare spesso su vecchie carrette contribuendo, con i 16 milioni di euro che annualmente entravano dalla vendita dei biglietti, a tenere su una baracca sempre più instabile.
Questa è stata fino al 2015, secondo la Procura barese, la società Fse. Luigi Fiorillo si trova agli arresti in casa da giovedì e con lui, sempre ai domiciliari sono altri dieci indagati: Angelo Schiano, presunto amministratore occulto e avvocato della società; Fausto Vittucci, revisore e certificatore dei bilanci, e gli imprenditori Fabrizio Camilli, Ferdinando Bitonte, Carlo Beltramelli, Carolina Neri e Gianluca Neri, Franco Cezza, Rita Giannuzzi e Gianluigi Cezza. Bancarotta fraudolenta l’ipotesi di reato, concretizzatasi in un continuo impoverimento delle casse fino a determinare il crac da 230milioni di euro che ha messo in ginocchio una società che sulla carta aveva e ha ancora i numeri per essere un fiore all’occhiello in una regione in cui il sistema dei trasporti soffre ataviche arretratezze.
Confusione, dunque. Per interpretare i bilanci della società amministrata da Fiorillo fino al commissariamento, i consulenti della Procura barese hanno dovuto sudare le classiche sette camicie. “Il ruolo duplice di Sud Est come società privata e società appaltante - è scritto nell’ordinanza di custodia - avrebbe dovuto imporre alla società una contabilità assolutamente separata”. E invece così non è stato, almeno fino all’arrivo del commissario. Su quel conto, il 13000 della Bnl, confluiva tutto. Due miliardi di euro tra il 2007 e il 2015, secondo i consulenti del pm: i contributi della Regione, gli incassi dalla vendita dei biglietti e degli abbonamenti e i fondi che giungevano dal Ministero destinati ad investimenti, a progetti di sviluppo. Non, dunque, una contabilità separata come la legge sugli appalti richiede, ma “un impianto contabile assolutamente inadeguato rispetto alla dimensione aziendale”. Da qui la mancanza di controllo sul flusso di denaro destinato agli investimenti e che avrebbe dovuto finire su conti appositamente dedicati, cosa avvenuta soltanto in un secondo momento. Da qui, ancora, una gestione del tutto inadeguata che avrebbe comportato una crescita esponenziale del debito.
I consulenti hanno evidenziato il ricorso ad una serie di “espedienti contabili” che hanno nascosto negli anni le perdite in bilancio. Già nel 2013, secondo la Procura, gli amministratori avrebbero dovuto procedere alla ricapitalizzazione della società o addirittura avviare le procedure per il fallimento. E invece no. Si è continuato su una strada in discesa, “aggravando in modo spregiudicato il già grave disavanzo, concludendo affari sconsiderati in violazione delle regole di evidenza pubblica”.
Ed eccoli alcuni di questi “affari sconsiderati”: cinque milioni a Fiorillo come compenso per attività di supporto “senza averne le competenze”; più di sette milioni di euro per la stipula di contratti co.co.co per attività secondo l’accusa mai svolte; 19 milioni di euro per studi geologici e coordinamento della sicurezza nei cantieri che non sono mai stati rimborsati dalla Regione; 27 milioni di euro dati all’avvocato Schiano per attività di assistenza e consulenza aziendale; 53 milioni per la gestione di servizi informatici; altri due per la gestione dell’archivio storico. E poi altri incarichi e altre consulenze e altre spese fino ai soldi che sarebbero stati sprecati pagando il gasolio ad un prezzo maggiorato del 40% alla società che fa capo all’ex assessore regionale ai Trasporti Fabrizio Camilli.
Chi e come avrebbe dovuto controllare? Chi e come avrebbe potuto fare qualcosa per evitare la corsa verso il baratro? Sono domande che i magistrati della Procura barese si sono poste e continuano a porsi soprattutto in questi giorni, perché ora che sono stati eseguiti gli arresti le indagini possono prendere un’altra strada. Quella di Roma, in particolare, perché va accertato se negli uffici del Ministero ma anche nelle stanze della politica qualcuno ha fatto finta di non vedere o non sentire.
Intanto, a proposito della mancanza di controlli, la Procura pare abbia già acceso il faro sul comportamento della Bnl. Nella stessa ordinanza, del resto, i magistrati scrivono di una “totale assenza di controllo da parte della Bnl sull’utilizzo delle somme concesse a favore di Fse”. Una “estrema libertà”, quella concessa dalla banca, tramutatasi secondo il pm “in un abuso da parte di Fse dello strumento di anticipazione bancaria”. E ancora: una condotta (quella di Bnl) “che ha consentito all’amministratore di utilizzare a propria discrezione somme destinate agli investimenti per finanziare l’esercizio dell’attività ordinaria e soprattutto sostenere le ingenti e sproporzionate spese allo scopo di favorire l’arricchimento di alcuni fornitori, professionisti e dipendenti della stessa società”. Ecco a cosa serviva la confusione nei libri contabili. A coprire tutto questo, a nascondere quello che in buona sostanza le Ferrovie Sud Est erano diventate: un bancomat. Lo dicono i periti, lo dice la Procura, lo dicono i testimoni che sono stati ascoltati e che per anni hanno lanciato allarmi perdutisi del silenzio e nell’indifferenza di chi avrebbe potuto azionare il freno d’emergenza e non lo ha fatto. Di questo, e anche di altro, si parlerà da domani negli interrogatori che vedranno gli arrestati faccia a faccia col gip.

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