Un tubo a San Foca già nel 1992?
«È il punto più vicino dall’Albania»

Un tubo a San Foca già nel 1992? «È il punto più vicino dall’Albania»
di Francesco G.GIOFFREDI
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Giovedì 30 Novembre 2017, 10:45 - Ultimo aggiornamento: 11:00

«Avete rispolverato una storia vecchia di 25 anni fa...»: la voce un po’ roca, ma risoluta e lucida, dei tre decani recupera fatti e in alcuni frangenti si ribella. La «storia vecchia di 25 anni fa» è quella raccontata ieri da Quotidiano: nel 1992 fu presentata alla Camera una proposta di legge per la realizzazione di un acquedotto tra l’Albania e l’Italia, con punto d’approdo a San Foca (esattamente nel sito dove nel 2020 dovrebbe attraccare il gasdotto Tap), peraltro paventando già all’epoca un’interconnessione sottomarina per gas e affini; la pdl era firmata da 19 deputati, ma il capofila era il socialista Damiano Potì (padre di Marco, attuale sindaco di Melendugno e portabandiera “No Tap”). La proposta di legge non decollò, «perché fu sciolto il Parlamento», analizza oggi Biagio Marzo, anche lui salentino, socialista e tra i 19 firmatari. Ma un quesito pulsa forte, quasi martellante: la designazione di San Foca come potenziale approdo di un qualsivoglia tubo, abbozzata nel 1992 con la pdl e con uno studio di fattibilità, quanto condizionò poi la scelta dei decisori nazionali, regionali e locali nel successivo affaire Tap? E qualcuno, dal territorio salentino, offrì sul piatto d’argento quella localizzazione per il gasdotto, visto che ormai il teorico varco era stato aperto? Su questo i protagonisti dell’epoca sono categorici, quasi tutti: «Le due cose sono completamente slegate», assicurano tanto Potì quanto Marzo. «Ma anche allora si parlava dei problemi legati alla disponibilità del gas...», ammette tuttavia Gaetano Gorgoni (ex Pri). E se Potì - ricostruiscono all’unisono gli altri due colleghi - «fu il padre del progetto», Marzo nel 1992 era presidente della Bicamerale per la ristrutturazione delle partecipazioni statali: «L’Iri era molto interessata all’acquedotto Albania-Italia», ricorda. Proprio Marzo fu uno dei motori dell’iniziativa, «con un convegno alla luce del sole, con mobilitazione di enti locali, istituzioni, associazioni», e oggi prova a sgombrare il campo dagli interrogativi sulla “carsicità” del sito di San Foca, apparso, scomparso e poi riaffiorato in vent’anni: «Non c’è alcun giallo. Nella nostra proposta di legge sull’acquedotto si pensava a San Foca perché era il punto più vicino all’Albania, e per la stessa ragione immagino che poi sia stato preso in esame il medesimo sito per il gasdotto». Insomma: questione soltanto di miglia, che è pure una chiave di lettura.
A scanso di equivoci: la «storia vecchia di 25 anni fa» è stata qui ripescata per puro caso, e “il merito” va accreditato per intero a Michele Emiliano, che nei giorni scorsi ha accennato pubblicamente a un acquedotto Albania-Italia da far correre in parallelo col Tap a mo’ di compensazione ambientale, stimolando così l’ovvia curiosità giornalistica. Domanda: il governatore pugliese sapeva magari dell’impolverata proposta di legge del 1992? «Potrebbe essere», azzarda Potì. «Credo di no» commenta invece Marzo, che da oltre un anno siede nel Comitato degli esperti nominato in Regione da Emiliano (a titolo gratuito).
Giova ora riavvolgere il nastro e ripercorrere le tappe, fino al 1992. Chiave di lettura: nessuno dei tre ex parlamentari salentini rinnega la proposta di legge e c’è chi con sfumature diverse ha qualcosa da eccepire sul «fondamentalismo ambientalista» (la definizione è di Marzo). Di più: non fioccano bocciature tout court del gasdotto, nemmeno da Potì. Che spiega: «Ho sempre condotto battaglie per l’acqua. Ma attenzione, è una cosa separata dal gas. Se pure si avanzavano ipotesi di supporti infrastrutturali in comune, al vaglio tecnico-scientifico quelle ipotesi sarebbero state scartate a priori. E poi a Lecce la condotta dell’acqua deve essere realizzata il più vicino possibile al serbatoio di Galugnano, nel caso del gasdotto bisognerebbe invece avvicinarsi il più possibile a Mesagne. Ecco: se proprio si deve realizzare il Tap, deve essere il meno invasivo e dannoso possibile, e il più vicino alla rete Snam di Mesagne. Ma di certo l’acqua non può essere congiunta al gas». Potì si riallaccia a temi-cardine della battaglia “no Tap” («il consumo di gas è la metà della disponibilità», e «qui rispetto a 25 anni fa c’è uno sviluppo turistico enorme»), ma puntualizza: «A differenza di chi dice “no tap” e basta, io penso che se ci sono delle ragioni geopolitiche e strategiche, il gasdotto va realizzato almeno nel luogo meno dannoso. La centrale di decompressione non può stare a un chilometro dal centro abitato, non è accettabile, la sicurezza e la salute non hanno prezzo. Così come non può esserci un eccessivo consumo di suolo». E allora la morfologia, l’urbanizzazione e la ridotta distanza dalla rete Snam renderebbero i possibili siti d’approdo brindisini «preferibili», secondo Potì. Ma l’impatto del tubo non fu soppesato nel 1992? «Allora il problema dell’acqua era molto più importante rispetto a quello del paesaggio, ora invece sono beni che si equivalgono. Ma per me resta sempre superiore l’acqua, non il gas: l’acqua. E ritengo ancora utile portarla dall’Albania».
 
«Il problema della siccità era serio», aggiunge Marzo tornando al 1992. E un tubo a San Foca, si pensò, poteva essere tollerabile: «Il vero nodo del territorio è l’abusivismo lungo la costa, se ne parla sempre poco». Non è però una difesa del gasdotto: «Premetto di non conoscere le carte o le analisi del tracciato e del sottosuolo, e aggiungo anche di fidarmi della posizione di Emiliano a cominciare dalla decarbonizzazione. Sono riformista, non fondamentalista e populista: dico solo che bisogna ragionare serenamente su Tap. Io feci la battaglia per portare il gas a Brindisi», ma ora «i tempi sono superati», c’è «una mobilitazione dei sindaci e della Provincia» e la vertenza ambientale «va ora affrontata con una visione complessiva di Brindisi, Lecce e Taranto, per capire quale sviluppo dare al territorio».
«Firmai con molta convinzione quella proposta di legge», dice Gorgoni. «Anche allora però si parlava di possibilità in relazione al gas. È un vecchio problema». Nel 1992 vigeva la tesi del “tubo a impatto zero”? «Ma anche fino a poco tempo fa sembrava che non potesse essere un problema ambientale. Io francamente non ricordavo nemmeno questa proposta di legge e il relativo coinvolgimento di San Foca, forse potevano ricordarsene solo i Potì (ndr: oltre a Damiano anche il fratello Vittorio, ex consigliere regionale ed ex sindaco di Melendugno scomparso nel 2011). Dico solo che se vogliamo sostituire davvero il petrolio e il carbone, dobbiamo agevolare tutto ciò che serve a favorire l’ingresso di fonti pulite».
Al fondo resiste il dubbio storico: come mai l’approdo del gasdotto migrò a fari spenti da Lendinuso (prima ipotesi) a San Foca? Nemmeno Potì ha certezze: «Non lo so, probabilmente c’era l’ipotesi di un’opportunità, forse tutte le forze politiche erano orientate in quel senso. Lendinuso venne scartata col pretesto della posidonia. Ma alla luce degli approfondimenti tecnici, il problema - lo ripeto - è quello della sicurezza e della salute. Vi posso solo dire che mio fratello avrebbe impugnato ogni atto per dar battaglia e correggere gli errori. Mi fa piacere che ora continui Marco, e io do una mano». Marco Potì sbandiera però il “né qui, né altrove”, e allora in famiglia c’è una bella differenza: «No, Marco dice prima di tutto che il gasdotto non serve e non va fatto, in seconda analisi non lo esclude a priori, soltanto va trovato un posto sicuro e meno dannoso»

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