Xylella padrona, gli ulivi muoiono
Il Salento abbandonato a se stesso

Xylella padrona, gli ulivi muoiono Il Salento abbandonato a se stesso
di Renato MORO
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Domenica 10 Settembre 2017, 18:17
Tutto inutile. Hanno invitato persino Helen Mirren, a Viscillito, per cercare di salvare l’uliveto millenario. Chi se non lei, l’attrice angloquasisalentina che undici anni fa interpretrò Elisabetta II forse meglio di quanto la regina madre interpreti se stessa nelle stanze di Buckingham Palace, avrebbe potuto richiamare l’attenzione su una vera regina? Niente. La Regina, l’ulivo millenario che nelle campagne tra Strudà e Lecce ha visto scorrere decine di secoli, sta male.
E stanno male il Re, il Leone, la Cascata, la Testa, la Colonna e gli altri ulivi che la leggenda vuole, alberelli di primo pelo, ombreggianti la strada al passaggio di Giulio Cesare Ottaviano e delle sue truppe in marcia verso Roma.
È la foresta di ulivi che sta scomparendo. È il paesaggio che è cambiato e sta cambiando ancora. È il mare verde che continua a colorarsi di marrone. Dalle parti di Gallipoli, giù verso Ugento, non c’è più da anni e al suo posto ci sono soltanto alberi morti o moribondi, tronchi che sembrano zombie, terra, pietre e vuoto e abbandono. Non c’è più, il mare verde, lungo i 25 chilometri della statale 101 che collegano Galatone a Lecce. Anche lì un paesaggio desolante: zombie rivestiti di corteccia con le radici piantate nel terreno, interi uliveti ormai secchi e pietre e vuoto e nulla altro. “La Xylella è mafia”, scrisse qualcuno sul cemento di un cavalcavia un paio di anni fa, quando ancora si credeva che il solfato di rame e la calce avrebbero fatto il miracolo sbugiardando gli scienziati che nei laboratori inseguivano un batterio inesistente agli ordini di multinazionali intenzionate a distruggere l’agricoltura salentina. Ora che la teoria del complotto si è dissolta nell’atmosfera del ridicolo, ora che ci si è resi conto che i miracoli non esistono e che una, dieci, cento ordinanze del Tar non bastano a salvare il paesaggio, una mano pentita ha affiancato la parola “Tap” a “Xylella”. Meglio cambiare nemico piuttosto che inseguire fantasmi.
Ma andiamo avanti col bollettino. La fascia centrale del Salento che guarda lo Jonio è un disastro, una “zona infetta” della quale nei palazzi del potere non si preoccupa più nessuno. Qualcosa sopravvive nel Capo di Leuca, la zona di Maglie viene data per spacciata, mentre la fascia che guarda l’Adriatico, fino a Lecce, sembra sia solo in parte compromessa. Poi, più a nord, i focolai di Oria, San Pietro Vernotico e San Vito, col timore - per gli imprenditori un vero e proprio terrore - che il batterio possa presto trovar casa nella piana degli ulivi secolari che da Ostuni si spinge fino all’altopiano della Murgia. E le campagne di Avetrana e Manduria nel Tarantino, dove la presenza di xylella è stata certificata dalle analisi del Cnr.
È la fotografia, per forza di cose approssimativa, di una Puglia in balìa di un batterio vergognosamente sottovalutato. In due anni e mezzo, da quel marzo del 2015 in cui questo giornale lanciò l’allarme nella speranza di dare la sveglia alla politica e all’università che assistevano inermi all’incalzare della crisi, è cambiato soltanto ciò che non doveva cambiare. Il settore è a terra, la produzione è calata vertiginosamente, ci sono aziende che hanno chiuso e altre che stanno per chiudere, uliveti distrutti e abbandonati, frantoi costretti ad acquistare le olive da fuori provincia per andare avanti con la produzione, posti di lavoro cancellati, agricoltori ormai scoraggiati e rassegnati, agriturismo che non possono più offrire ospitalità - come si legge su Booking.com - “all’ombra degli antichi ulivi del Salento”. Di contro, la corsa ai rimedi, o perlomeno al contenimento dell’infezione, è un’interminabile sequenza di fallimenti e assenze. Con la beffa che proprio in questi giorni la giunta regionale ha tirato fuori dal cilindro una serie di aggiustamenti alla legge sulla xylella che ricalcano le indicazioni fornite anni fa dall’Europa e rimaste sulla carta. Come dire: scusate, ci eravamo sbagliati e ora torniamo al punto di partenza.
Sullo sfondo la famosa task force di esperti istituita in Regione che non è servita a un bel nulla e l’inchiesta della Procura di Lecce giunta ormai alla terza proroga e dalla quale ci si attende ancora le risposte agli interrogativi che ci hanno accompagnato in questi lunghi mesi in cui è stata gettata un’ombra di sospetto sull’attività di ricerca: qualcuno ha colpevolmente introdotto il batterio nel Salento? C’è davvero una strategia occulta che ha voluto danneggiare se non distruggere il comparto olivicolo salentino? Nel silenzio istruttorio, ovviamente, emergono gli ultimi colpi di coda del complottismo.
Surbo non è proprio uno dei quei borghi da consigliare ai turisti in giro per il Salento. La periferia, cresciuta all’ombra del sogno di un posto di lavoro alla Fiat Allis, ha strade larghe e case basse tutte uguali che i proprietari spesso dipingono di colori impossibili forse per urlare la loro voglia di sfuggire all’anonimato e al degrado urbanistico. Ma la campagna è un paradiso e la strada che corre verso il mare taglia la foresta di uliveti secolari interrotta solo da qualche pajara e dalle pale eoliche di una centrale elettrica. Sarebbe stato un gran bel parco naturale di cui vantarsi, ma non lo è. E non lo sarà mai, probabilmente, perché gli ulivi stanno morendo. Ai lati della provinciale di verde non è rimasto quasi nulla e molti uliveti sono già stati azzerati dalle motoseghe. Eppure non sono terre abbandonate, si vede lontano un miglio che sono state e sono curate. Fino a un paio di anni fa gli agricoltori della zona dormivano sonni tranquilli, ora temono di perdere tutto. Si salva l’entroterra e si salva anche la provinciale parallela, quella che da Squinzano conduce a Casalabate. Distese di ulivi secolari anche lì, con gli alberi più belli e antichi che fanno da cornice a Santa Maria di Cerrate. «Tutto apparentemente intatto», dice Giovanni Melcarne, l’agronomo che ha individuato e messo a disposizione del Cnr di Bari alcune piante di olivo selvatico che sembrerebbero immuni al batterio e che ora sono oggetto di studio da parte dei ricercatori. «Conosco quegli uliveti. Una campagna bellissima, ma anche lì, dalle parti di Cerrate, ci sono tracce di disseccamento. C’è poco da stare tranquilli, purtroppo anche quella zona è destinata a soccombere».
La tranquillità non è più di casa nel Salento. La stagione delle olive è all’inizio, gli esperti prevedono che l’olio sarà buono anche se in quantità ridotta rispetto agli anni passati, ma l’attenzione è rivolta ad altro. All’Unione europea, innanzitutto, dalla quale ci si aspetta un via libera per il reimpianto, al governo e alla Regione. Ma è rivolta anche a quello che sta accadendo a nord di Bari e in particolare nel Foggiano. È il grande paradosso di una Puglia in cui alla fine ognuno fa come gli pare perché nessuno è in grado di indicare una strada precisa da percorrere. Nel Salento i produttori che hanno perduto gli alberi, distrutti dalla xylella, non possono reimpiantare. Nemmeno le varietà, come il Leccino, che sembrano essere più resistenti al batterio. Tutto fermo, immobile nell’attesa di un’apertura che al momento non si intravede. Nel nord della regione, invece, aumentano di giorno in giorno le aziende che chiudono con la produzione del grano per riconvertirsi piantando ulivi e avviando coltivazioni superintensive che già in un paio di anni consentono di ottenere il primo raccolto. Fiutato l’affare? Il ragionamento potrebbe essere questo: il Salento è in ginocchio a causa dei danni provocati dalla xylella e visto che la produzione va verso un calo sensibile o addirittura verso uno stop mettiamoci noi a produrre olio.
«Stanno ragionando proprio così - avverte Davide De Lentinis, azienda nella zona di Casarano». Più cauto Melcarne: «Non escludo che i foggiani si stiano danno alla produzione di olio per approfittare del disastro che ha colpito il Salento, ma non credo che la loro sia la strada giusta. Stanno piantando alberi di varietà che non risulta resistente alla xylella e questo fa dei loro uliveti un potenziale centro di infezione nel futuro. Mi spiego meglio: se il batterio arriverà nella loro zona, e al momento non vedo perché questo non debba accadere vista la mancanza di contromisure in tutta la Puglia, colpirà gli alberi che ora stanno piantando. E ricominceremo daccapo. Il reimpianto va fatto con le varietà resistenti come il Leccino o la Favolosa, in attesa che il Cnr si pronunci sulle piante individuate da noi come potenzialmente immuni».
La speranza, al momento, è proprio in quelle piantine selvatiche che Giovanni Melcarne ha raccolto in diverse zone del sud Salento. I ricercatori del Cnr le stanno studiando, sembrerebbero immuni al batterio ma - come dicono i cronisti di giudiziaria - il condizionale è d’obbligo e occorre attendere i prossimi test per avere una risposta. Passeranno almeno altri due anni e nessuno ha voglia di gridare al miracolo prima del tempo. Ma sarebbe una bella risposta se davvero, alla fine, la soluzione giungesse da una pianta selvatica individuata proprio qui. Alla faccia delle piante geneticamente modificati che qualcuno ha immaginato ammassate nei depositi della Monsanto, pronte a invadere il mercato quando l’ultimo degli ulivi nostrani sarebbe diventato legna da ardere. Perché s’è detto anche questo. Perché si è data troppa retta a quanti hanno sostenuto e ancora sostengono che la xylella non esiste. Perché abbiamo perso troppo tempo a declamare poesie strappalacrime, a esibire foto ingiallite con gli alberi di famiglia, a raccontarci storie e leggende per affermare che gli ulivi non possono morire così dopo aver vissuto per secoli. Perché se Atena ha fatto nascere dal nulla l’ulivo, quel giorno che litigava con Poseidone, lo ha fatto per consegnarlo a noi salentini. Insomma, qualcuno un giorno studierà il caso Puglia.
 
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