Carolina Bubbico, il segreto jazz di un destino (e di una famiglia) in musica

Carolina Bubbico, il segreto jazz di un destino (e di una famiglia) in musica
di Rosario TORNESELLO
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Domenica 14 Ottobre 2018, 20:09 - Ultimo aggiornamento: 20:28

Deve essere un segreto tutto suo, suo del jazz, parola mistica che qui, in questa casa, pronunciano come si deve, con due a e una zeta, ma dolce, quasi esse. Perché altrimenti non si spiega questa storia dove il ritmo certamente ma anche l’armonia, ecco: l’armonia soprattutto, sono materie pregiate di un’arte tramandata da padre in figlio, da madre in figlia, tra note, spartiti e opere prime che lasciano il segno e schiudono le porte a quelle che verranno. Non si spiega, altrimenti, l’unione nella separazione e, con esse, la vicinanza nella lontananza, il contrappunto nella melodia. Gli uguali, gli opposti e i diversi che fanno di tutto questo, senza dubbio, una storia. Luigi, Irene, Carolina e Filippo sono i nomi. Bubbico e Scardia i cognomi, variamente distribuiti. La famiglia è un concetto che nel tempo si è inchinato all’altro, che pure tutto muove e tutto tiene: l’armonia. Ecco.
 

 

Dettagli. In fondo al vialetto spunta una cagnetta. Simpatica, e tuttavia mai fidarsi. Amici? Amici. Si chiama Plettra, avete letto bene. Finché non suona la carica è tutto ok. Qui la musica è dappertutto, e nella quiete tanto per cominciare. Si sente. Villa Cettina è all’inizio del Villaggio del Sole, tra Lecce e San Cataldo, un’enclave per artisti: molti ce ne sono, altri ne verranno. Villette come brani musicali, ognuna un suo accordo, uno strumento, un timbro. Carolina (cantautrice, pianista, violinista, compositrice e direttrice d’orchestra a Sanremo, anno 2015, quando con la sua bacchetta Il Volo prese il volo) si affaccia dal fondo: orario comodo, abiti comodi, salotto accogliente, vissuto, caldo. Un pianoforte a coda, uno Yamaha che era della madre, regalo dei nonni, titolari di quello che fu uno dei templi della musica a Lecce, Erriquez, pieno centro, dà il benvenuto senza battere tasto. Il resto si muove intorno, ma l’angolo magico è qui, i microfoni, gli spartiti, tutto insomma. Immaginatevelo.

Lei, Carolina Bubbico, ha 28 anni. Il fratello, Filippo, due anni più piccolo, è di là che dorme. La mamma, Irene Scardia, 52, traffica nel cucinino e ne esce con un caffè come si deve (anzi due: «sgancia pure a me», la supplica la figlia) soprattutto a quest’ora, comoda sì, ma insomma: musicisti e giornalisti prima della rima condividono la vocazione a far tardi. Il padre, Luigi, 63, abita a meno di un chilometro da qui. Sono separati da tempo, i genitori. Ma l’armonia - versione jazz, ricordate? - tiene dentro tutto. Come il marchio di famiglia, Workin’ Label, che dal 2009, esordio discografico della madre, accompagna quanto viene ideato, elaborato e partorito qui. Non sarà dei nostri, il padre, «perché è un po’ orso» (relata refero, sia chiaro). Quanto zucchero? Amaro, grazie.

Vieni per Carolina e scopri un mondo (più esattamente, per scoprire un mondo). Il capofamiglia, intanto, l’assente giustificato. È nato a Montescaglioso, fronte materano della Basilicata, autodidatta prima di studiare al Santa Cecilia di Roma e al Berklee College of Music di Boston, le tappe maggiori, sufficienti – e ci mancherebbe – per sbarcare infine a Lecce e attivare la cattedra di Musica Jazz al Conservatorio Tito Schipa. Anno 1988. Lì conosce Irene, studentessa, poi pianista e molto altro ancora e adesso manager di questa casa che è un’orchestra, anzi Orchestrina, nome dell’associazione di cui Workin’ Label è il braccio operativo, etichetta per i lavori di tutti, a partire dai due dischi di Irene e dalle prime pubblicazioni di Carolina fino all’esordio musicale di Filippo (“Sun Village”, traduzione e rimando evidenti) e all’ultimo libro di Luigi, dal titolo che non ti sbagli: “Introduzione all’armonia jazz”. Appunto. Quattro mesi per cambiare la vita: Luigi e Irene si piacciono, si cercano, si sposano. «Lui voleva mettere su famiglia. Aveva 33 anni, io 22. Una pazzia», racconta Irene. Presto, vivace, allegro: la musica ha i suoi movimenti, così arriva Carolina. Subito. «Ma non sono un errore, sono un progetto d’amore». Messo a verbale.

Crescere in musica deve essere un’avventura magica. Carolina sgrana gli occhi, allarga le braccia, sorride, aggrotta la fronte, si muove, si protende e si ritrae, una partitura completa, un andamento fluido che accompagna le parole, e per essere precisi sbuffi di parole, batuffoli su cui porre i ricordi e offrirli alla tua attenzione, fino a quando non ricompone infanzia, adolescenza e maturità in un’opera unica. Una sinfonia, a suo modo. «Nessuna costrizione, è stato tutto un gioco. I miei sono stati genitori eccellenti. Con loro abbiamo vissuto la musica a tutto tondo, spontaneamente. Ogni anno uno strumento diverso. Le lezioni di papà e le ore di musica d’insieme nella scuola di mamma. Nessuna imposizione, puro divertimento. Un’esperienza unica, una formazione irripetibile». Dopo il liceo Classico al Palmieri, sei mesi all’Università, Lettere. «Ma è stata la sola pausa che mi sono concessa. Non so da dove mi sia venuta». Triennio di pianoforte al Conservatorio Nino Rota di Monopoli, poi specializzazione in musica jazz. Massimo dei voti, lode, menzione. Armonia, insomma. Lei ci aggiunge di suo reggae, ska e rock. E con la loop-station, regalo di Irene, salpa verso paesaggi inesplorati fino ad approdare al suo primo progetto musicale: One girl band, 2011. Fa tutto lei. Scrive, canta, compone, arrangia. Suona.

A Sanremo, però, non ci arriva come solista. “La vita è tutta mia”, il suo brano, non supera le selezioni. «Grande delusione, ma serve a capire molte cose». Vedrai che ci tornerai come direttrice, la conforta la madre. Per come vanno poi le cose, sarebbe più corretto dire profetizza: due anni e accade. Lei, una donna, così giovane. Eppure succede. Tailleur, grinta e tutto l’insieme delle cose viste, sentite, studiate, apprese, inclusi i passaggi - bacchetta in mano - nella Swing big band di papà. Tutto torna. Carolina ci arriva nella sezione giovani a dirigere il brano di Serena Brancale, ma il manager Michele Torpedine - che aveva già adocchiato l’esplosione artistica di quella cascata di capelli ed energia - le chiede di guidare anche l’orchestra per Il Volo. “Grande amore” vince. «Papà e Filippo salirono la sera della finale per venire a prendermi. Avevo molte cose da portare giù a casa, tanti vestiti, molti ricordi, entusiasmo e stanchezza. Arrivarono alle tre di notte, eravamo fuori a festeggiare. La macchina aveva fatto i capricci in autostrada. Un disastro».

La vita è tutta qui, in questo nido di pace. Vanno, vengono, si fermano. Mischiano privato e lavoro. «Ma almeno a pranzo gli impongo di spegnere il cellulare. Eh no!», chiarisce la madre. Filippo ha firmato il suo primo album, Luigi il suo ultimo libro, Irene la sua ennesima impresa da donna mamma manager («ma forse un giorno tornerò a suonare»). E Carolina lavora al suo nuovo disco. Da poco è rientrata da Los Angeles, lei in corsa con un’altra ventina di giovani da tutto il globo per l’ammissione al Thelonious Monk Institute, esclusiva e prestigiosa scuola di due mostri del jazz, Herbie Hancock e Wayne Shorter. Era in gara per la voce, Carolina; stavolta hanno scelto sette strumentisti. Càpita. «Ma anche solo prepararmi e superare tutte le selezioni mi è servito a crescere, e molto. Arrivare alla tappa finale è già un’impresa». Due anni prima ci era entrato, fin qui unico italiano, Luca Alemanno, salentino di Alessano, contrabbassista, a lungo in trio proprio con lei e Dario Congedo, batterista.

Stringe le spalle, allarga il sorriso. Una donna. Controvento. Cos’altro aggiungere lo dirà il titolo del prossimo album, il terzo. Sembra una storia lunga, ma siamo appena all’inizio. Buon ascolto.


 

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