Se l'Italia riscopre eleganza e competenza

Se l'Italia riscopre eleganza e competenza
di Vincenzo MARUCCIO
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Domenica 11 Febbraio 2018, 21:37 - Ultimo aggiornamento: 15 Febbraio, 23:30
Diciamo la verità: alla vigilia ci credevano in pochi. Difficile fare meglio di Carlo Conti, impossibile avvicinarsi ai record di Fabio Fazio, inattaccabili le edizioni vintage di Pippo Baudo. Un cantautore alla guida del Festival di Sanremo: quanto di più rischioso al mondo per conquistare con cifre roboanti il pubblico nostrano abituato a quiz con i pacchi, a “postini” che fanno piangere, a dirette pomeridiane no-stop sugli omicidi commessi dai nigeriani. 
Smentiti in pieno in questa settimana vissuta quasi in apnea: oltre il 50 per cento di share, audience oltre le aspettative, pagelle con voti in aumento. Non se l’aspettava nessuno: guru del piccolo schermo, signori delle pubblicità, analisti della televisione. Tutti sorpresi, presi in contropiede, costretti a fare marcia indietro. Non se l’aspettava nessuno che questo signore nato a Centocelle, periferia di Roma, e cresciuto con la “sua maglietta fina” - niente Twitter, niente foto choc sui social, salotti televisivi ridotti al lumicino - potesse compiere il miracolo. Che un Festival di sole canzoni e ospiti tricolori (solo qualche straniero, rara eccezione) potesse tenere inchiodati gli italiani all’elettrodomestico più amato senza ricorrere a trucchi e trucchetti, a specialisti dello scandalo o a strane alchimie del marketing. 
Lo specchio non mente: riflette la verità, racconta le emozioni, raramente deforma. E, talvolta, ti fa intravedere il futuro. La felicità in un sorriso, la malinconia nello sguardo basso, la vecchiaia in una ruga, la giovinezza in un ciuffo ribelle. E se il Festival di Sanremo è lo specchio dell’Italia, dalle Alpi a Lampedusa, dei ricchi e dei poveri, accade che quando ci guardiamo dentro (non credete a chi dice di non aver mai acceso su Raiuno nelle piovose sere di febbraio) finiamo per ritrovare noi stessi. Belli e creativi molto più di quanto credevamo di essere, arrabbiati contro qualcuno perché oggi va di moda esserlo.
Baglioni Claudio, in arte cantautore, ci ha presi per mano e ha firmato la più dolce delle rivoluzioni quando fuori regna il caos e la confusione: il ritorno a noi stessi, la voglia di essere ciò che siamo stati nei momenti migliori. Baglioni ci ha messo del suo e non era facile se tutt’intorno (o quasi) è spesso un “urlare” continuo, in televisione come nella vita. Ci ha messo il garbo, l’eleganza, il savoir faire molto più italiano di quanto potremmo immaginare. Mai sopra le righe, equilibrato, ironico senza mai esagerare. Autoironico, soprattutto, accettando le stilettate di Virginia Raffaele sui capelli grigi. Pronto a mettersi in gioco “gattonando” sul palco per uno sketch davanti a 15 milioni di telespettatori. Sempre al posto giusto anche quando nelle prime serate qualcuno lo aveva definito un po’ soporifero rispetto agli spumeggianti Michelle Hunziker e Pierfrancesco Favino. Critici troppo tranchant, forse, abituati alle presentazioni roboanti degli anni passati o ai colpi di scena forzati pur di guadagnare un punto in più di share. 
Strada maestra: la canzone. E non poteva essere altrimenti in un Festival nato e cresciuto intorno a quei tre minuti e mezzo che ci tengono in vita quando siamo tristi e ci fanno volare quando abbiamo il cuore a mille. Baglioni ha rimesso al centro la musica eliminando definitivamente orpelli, premi Nobel, falsi intrattenitori e inutili trovate acchiappa-share che funzionano solo nella testa di certi autori televisivi. 
Canzoni allegre e altre impegnate, rime classiche e altre solo apparentemente demenziali, storie “cuore-amore” e canti di guerra. La leggenda di Cristalda e Pizzomunno di Max Gazzè che è una piccola epopea omerica, la “resistenza” anti-Isis di Meta e Moro che sposa la bellezza della vita più che l’invettiva contro il diverso, l’irriverenza leggera dello Stato Sociale che parla di precari e di evasione, la bellissima, commovente storia della “nuova proposta” Mirkoeilcane sul dramma dei migranti visto con gli occhi di un bambino. Le tragedie raccontate con la leggerezza che ne dischiude la verità senza appesantire, le storie d’amore senza falsità che altrimenti le renderebbero ridicole.
La stupidità bandita, soprattutto: come se fosse d’un colpo scomparsa la banalità catodica che troppo spesso ci tende la trappola tenendoci avvinghiati alla tv anche se fuori - al cinema, in un teatro, in una libreria o semplicemente in un campetto di periferia - la vita è migliore di quando raccontano i palinsesti.
La competenza senza bisogno di strafare: eccola la piccola, grande rivoluzione. Ciascuno che fa il suo, come ha detto in questi giorni qualcuno: il cantante che canta, la presentatrice che presenta, gli ospiti che duettano e fanno gli ospiti anziché solo promuovere un disco. La qualità, a quel punto, viene da sé e, tenuti lontani improvvisatori e dilettanti allo sbaraglio, chi sa fare il proprio mestiere ci mette poco a farci sorridere, commuovere, emozionare. 
Nazional-popolare, si diceva una volta, che non è una brutta parola quando racconta la “meglio gioventù” della musica, ci ricorda con le canzoni che siamo fatti di sacrifici e democrazia e ci mostra un futuro che viene dalla libertà. Nazional-popolare che non è una bestemmia se l’alternativa è solo l’insulto reiterato a chi la pensa semplicemente diversamente da noi e crede in un altro Dio. Nazional-popolare senza eccedere in inutili patriottismi o in xenofobie musicali a tutti i costi: la melodia che si sposa con il rap, un pianoforte che va a nozze con la chitarra elettrica. La canzone come metafora perché dentro puoi trovarci tutto: la società praticamente sempre, la politica spesso.
È la rivincita contro la maledetta mediocrità citata in questi giorni da Baglioni e che rischia di farci sentire peggiori di quanto, in realtà, siamo. La mediocrità che finisce in caciara, diventa corrida e si trasforma in offesa quando la musica si spegne e si accende il teatrino della politica urlata, strombazzata, fatta spesso su misura di chi la spara più grossa, di chi promette meno tasse e più pensioni, di chi preferisce i veleni sempre e comunque alle analisi sui fatti concreti. Di chi coltiva la protesta a ogni costo a discapito del buon governo che guarda all’interesse generale.
A Sanremo la mediocrità di certa tv, almeno per una settimana, è stata sconfitta. Forse è presto per dire che l’inversione di rotta è cominciata, ma non sottovalutatelo questo pezzo della nostra vita chiamato Festival. E se lo guardano in dieci milioni vuol dire che forse imbolsiti, stanchi e rassegnati al peggio gli italiani lo sono soltanto in parte. Non sottovalutatelo Sanremo se manda segnali, accende una luce e lascia intravedere spiragli: lo specchio, raramente, imbroglia. Come quando Modugno lo vinse nel 1958 e un’altra Italia vide la luce. Come quando Vasco Rossi finì all’ultimo posto all’inizio degli anni Ottanta aprendo lo squarcio su un Paese che facevano finta di non conoscere. Certe volte non sono solo canzonette. 
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