Giuliano Sangiorgi: «Il Sud ha già dato, adesso basta. Riprendiamoci i sogni»

I Negramaro
I Negramaro
di Rosario TORNESELLO
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Domenica 10 Giugno 2018, 18:59 - Ultimo aggiornamento: 11 Giugno, 21:46
Da Verona a Napoli. E poi Taranto. Quindi Milano. Infine giù in Salento. Un pieno di energia - la famiglia, gli amici, le prove - e si parte. Ancora. Un moto perpetuo. Le pile si ricaricano anche così. Destinazione ultima Lignano Sabbiadoro, Udine, Friuli. Ma non è l’arrivo, sia chiaro; è solo la partenza di un’altra tournée. L’avventura ricomincia da lì, il 24 giugno, estremo nord. Il bello è che finirà qui, come nel 2014: la nuova stagione negli stadi vivrà il suo happy end a Lecce, Via del Mare, il 13 luglio. Profondo sud. In mezzo ci saranno San Siro (il 27 giugno), l’Olimpico (il 30), poi Pescara (il 5 luglio) e Messina (l’8). L’Italia attraversata da un capo all’altro. La musica riconnette tessuti lacerati. La rivoluzione è già arrivata. Si è sentito. Visto. Cantato. Ora è l’amore che torna.

Giuliano Sangiorgi deve avere le alte quote nel sangue: passa dall’Arena per i Wind Music Awards e vola al San Paolo per l’omaggio a Pino Daniele. Poi in auto verso sud, direzione Medimex. E subito dopo Milano. Roberto Bolle lo aspetta domani per la grande festa della danza al Castello Sforzesco. E dopodomani, al Piccolo Teatro, la prima assoluta della “Tempesta” di Shakespeare interamente musicata da Giuliano sulle coreografie di Giuseppe Spota per Aterballetto. Larghi orizzonti: l’imprinting di Copertino è marchio di garanzia. E San Giuseppe, il santo dei voli, è il logo della Edizioni musicali Sangiorgi, società creata insieme con i fratelli Salvatore e Luigi. Col resto dei Negramaro, invece, condivide l’altra, Casa 69. Entrambe, ma in misura differente, ora affiancano la Sugar di Caterina Caselli. Quindici anni insieme, per la band. Una storia semplice. Straordinariamente importante. Ma qui non si parla solo di musica. Con calma. Riprendiamo fiato.

Da dove si comincia?
«Da Napoli. Da Pino Daniele. Ho ancora i brividi addosso».

Si torna a calcare palcoscenici importanti davanti a platee immense. Prove generali per Milano e Roma?
«È stato molto divertente ed emozionante. Ho suonato, mi sono liberato. Ho fatto come Pino mi ha insegnato. L’ho amato da piccolo, quando i miei fratelli mi portavano con loro a Porto Cesareo, in riva al mare. Io, il minore, imbracciavo la chitarra e loro, i grandi, si facevano belli con la comitiva del muretto. Trovare al risveglio dopo il concerto del San Paolo, sulla prima pagina del Mattino, la mia foto sul palco accanto a James Senese mi ha fatto scoppiare il cuore».

Cantare Pino Daniele a Napoli non deve essere facile.
«Sono andato in punta di piedi. Mi sono affidato completamente agli organizzatori. Non volevo dire di no a nulla. In fondo, era come tornare ai falò da ragazzo in spiaggia. Spontaneità pura. E qualche giorno prima eravamo con i Negramaro all’Arena di Verona. Altro palco mozzafiato. È la nostra roadmap delle emozioni per il grande rientro. Gli stadi ti fanno esplodere il sangue nelle vene. A Napoli è come stare a casa. La gente ci apprezza anche per la storia che incarniamo. Quanto a Pino, era un solista che riassumeva in sé il concetto di band e di contaminazione. Per tutti i musicisti, un concentrato delle migliori formazioni musicali del mondo. Il blues, il soul... È tutto lì. Impossibile prescindervi».

Racconta un aneddoto. Ne imita la voce. Per Giuliano non è una novità: si cimenta da piccolo, ormai ha un vasto repertorio. Comunque, a Caserta Pino Daniele gli fece una sorpresa nella sorpresa. Dicembre 2013, era l’ospite per la tappa dei Negramaro al Palamaggiò. Entrò fuori programma sulle note di “Un passo indietro”. “Dici che Giuliano s’incazza?” chiese a Lele Spedicato, il chitarrista. Un cenno d’intesa e via. Sangiorgi aveva stupito il pubblico mescolando, a quelli, gli accordi di “Malafemmena”. Pino Daniele stupì l’uno e l’altro sbucando dal buio chitarra a tracolla. Boato. Brividi.

Cosa ci ha lasciato? Cosa abbiamo perso?
«Io ormai ho capito questo, dopo la morte del mio papà, Gianfranco: quando le persone care vengono meno diventano parte di te. Guardandomi negli occhi rivedo mio padre. Non è sopravvivere ma vivere per dare agli altri quanto abbiamo ricevuto. Le persone che ti entrano dentro non possono mancarti. Mai. È stato così anche con Lucio Dalla. La bellezza delle loro opere. L’amore di un padre. Tutto questo ti insegna a vivere».

La musica diventa chiave d’accesso universale. Domani c’è Roberto Bolle. Dopodomani la Tempesta di Shakespeare.
«Due appuntamenti di straordinaria importanza e significato. Danza e teatro rientrano in una mia visione globale: la fruizione della musica non trascura alcun genere. È fisiologia, non solo estetica. Un lavoro a tutto tondo che ho già sperimentato con Michele Placido (“Vallanzasca”) e Giovanni Veronesi (“Non è un paese per giovani”). E così è stato per il mio romanzo, “Lo spacciatore di carne”. In quel caso ho tolto la musica alle parole. Per il balletto, invece, ho sottratto le parole alla musica per fare spazio ai corpi. La base dei sentimenti è immutata e attraversa i secoli. Dobbiamo ricordarcelo per evitare scivoloni quando pensiamo di scrivere la storia della canzone».

Qual è lo stato di salute della musica italiana?
«Mi piace come sta crescendo. È in atto un’evidente rigenerazione intorno a solidi punti di riferimento. Non mi convince, però, un certo manierismo nell’attualismo».

Vale a dire?
«I ragazzi devono imparare a comporre senza rifugiarsi nella quotidianità. Se agganci un lavoro a fattori transitori, quale può essere un riferimento agli hashtag o ad altri fenomeni similari, è chiaro che sforni un prodotto che ha già in sé la data di scadenza. Ma sono fiducioso: l’indie italiano ha lo sguardo rivolto alla sostanza delle cose. Torneremo ai grandi classici come Battisti e Tenco: li cantiamo ancora perché non sono mai caduti nella trappola dei manierismi e degli attualismi».

Impensabile prescindere dai talent?
«Oggi il mezzo di trasporto della musica è molto visual. E lo capisco. Ma il background deve continuare a essere nelle sale prove e nei club. A Lecce sono stati i locali della città e della provincia a permetterci di crescere, ospitando la nostra proposta musicale, fatta di canzoni originali e non di cover. Una vera palestra per i nuovi talenti. Le visualizzazioni su Youtube non contano se poi fai solo cinquanta spettatori paganti».

Il vostro ultimo album, “Amore che torni”, registra continui successi. E il tour si annuncia trionfale. Superata la crisi di crescita?
«Siamo insieme da quindici anni. Abbiamo condiviso le difficoltà di una famiglia. Molti fanno finta di nulla e simulano felicità e armonia. In genere non mi ispira fiducia chi non mostra mai le proprie debolezze. Noi non abbiamo avuto difficoltà a parlare delle nostre e ci siamo affidati alla bellezza di questo album per un nuovo inizio. In molti ci hanno scritto, dopo, per raccontare le loro difficoltà, le loro piccole e grandi crisi. Non ci siamo mai sciolti, stavamo solo cambiando dentro. Così abbiamo voluto fermarci un attimo. E, per staccare, io sono volato a New York».

Nel brano dedicato alla Grande Mela è scritto che “se c’era una volta l’America adesso c’è un uomo che non sogna niente”. E qui da noi, in Italia, è ancora possibile sognare?
«No. In questo momento non sogno nulla. Stiamo vivendo uno dei periodi più brutti. Soprattutto al Sud. Non si tratta di giocare una sterile contrapposizione con il Nord, ma una parte del meridione è stata presa per i fondelli. Non posso dimenticare quanto è stato fatto e non capisco il voto di protesta. Vorrei che questa nostra terra venisse rispettata per la sofferenza che ha patito e per la grandezza che ha dimostrato. È vero che i geni crescono nelle difficoltà, riguarda tutti i Sud del mondo. Ma noi abbiamo già dato. Ora basta. Non si può vivere nelle discriminazioni. L’accoglienza è una legge dell’umanità prima ancora dell’ordinamento statale. Se lo dimentichiamo annulliamo l’idea stessa di politica».

Pessimista?
«No. “Amore che torni” è un album fiducioso. Nell’omaggio a De André, le parole di una bimba, Maria Sole, mia nipote, sono la voce della purezza che apre alla speranza».

Ci sarà tutto questo nel nuovo tour?
«Sarà festoso e pieno di hit. Ripercorreremo la nostra storia per cantare tutti insieme. E così, insieme, andare incontro al futuro».


 
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