L'isola che non c'è: la guerra di Davide per il “Donatello”

L'isola che non c'è: la guerra di Davide per il “Donatello”
di Rosario TORNESELLO
7 Minuti di Lettura
Domenica 18 Febbraio 2018, 19:40
Signori si nasce. Cafoni pure. Poi le carte possono anche mescolarsi, càpita (oddio: ora sì, un tempo no; l’ascensore sociale ha capienza ampia per imbarcare un po’ tutti, all’insù e all’ingiù. La modernità è alquanto democratica, in questo). E tuttavia possono pure sovrapporsi, le carte, con risultati esilaranti, imbarazzanti o sorprendenti, a seconda: un cafone di signore, con vasta possibilità di scelta, o un signor cafone, per quell’in più di eleganza che la sorte a volte concede beffarda alla rozzezza, non alla miseria, che ha nobiltà tutta sua. Fino ad arrivare, infine, al raddoppio che non lascia scampo: un signore signore o un cafone cafone sono categorie che fagocitano e intrappolano, amen. E questo film, questo che richiama gli uni e gli altri, questo che arriva alle finali del David di Donatello, “La Guerra dei cafoni”, appunto, questo è proprio un signor film. Ma signore signore. Punto.

È piaciuto, piace, piacerà. «A me sì, molto». Davide Barletti sorride. Lo sguardo sorvola il contegno dei modi: la timidezza affiora sulle gote, ma è negli occhi azzurri - oltre le parole - che leggi in trasparenza tutta la soddisfazione per il lavoro svolto. È quasi ora di pranzo; sorseggia un Campari. Lo ha scelto lui: se ti assale la curiosità e compulsi internet, scopri che il bitter si porta appresso il patronimico del fondatore, che di nome faceva Davide pure lui. Circondati. È alle soglie dei 46 anni (il regista, non l’aperitivo) e questo è il suo terzo film dopo “Italian Sud-Est” (2003) e “Fine pena mai” (2008), al di là di documentari realizzati e prodotti, reportage, cortometraggi, cinquanta in tutto dal 1995 ad oggi, una mole di lavori importanti dopo i primi, subito premiati, dedicati all’Albania e alle imprese dei fantasisti del calcio, funamboli capaci di infiammare il San Paolo di Napoli e non solo. L’ultima opera, invece, è tutt’altra storia, ma l’orizzonte è sempre a est. «Una scommessa», spiega Barletti. «Abbiamo faticato molto per superare diffidenze e scetticismi. Presentavamo lo script del film e alzavano il sopracciglio: “Troppa roba”. Ma era esattamente quello che volevamo fare». S’è fatto. Fatica e mille peripezie, prime su tutte i fondi necessari, ma s’è fatto.

La “Guerra dei cafoni” arriva in finale al “David di Donatello”, Accademia del cinema italiano. I vincitori saranno proclamati il 21 marzo da Carlo Conti, in diretta tv su Rai Uno. Ore 21.15, segnare in agenda. Il film è candidato per la “migliore sceneggiatura non originale” in una kermesse che vede la Puglia ben rappresentata. Non è provincialismo ma puntigliosità geografica. In lizza anche l’opera prima di Donato Carrisi dietro una macchina da presa per “La ragazza nella nebbia”, categoria “miglior regista esordiente”, lui, lo scrittore originario di Martina Franca. E a Taranto, per restare nel paraggi, è nato Carlo D’Amicis, l’autore del libro (edito nel 2008 da Minimum Fax) da cui è tratto il film che Barletti ha girato insieme con Lorenzo Conte, compagno in questa e nelle precedenti avventure sul set. A sceneggiarlo, con loro due, anche lo stesso scrittore e Barbara Alberti, presentazioni superflue. Ecco: i candidati sono tutti e quattro. Un leccese (Barletti), un romano (Conte), un tarantino trapiantato a Roma (D’Amicis) e una perugina cittadina del mondo (Alberti). E fin qui la bella notizia. La brutta è che se la vedranno con competitori di chiara fama. Per dire: Gianni Amelio, Paolo Genovese e i fratelli Paolo e Vittorio Taviani, in gara con un film che ha come protagonista Luca Marinelli, fresco di trionfo in tv nei panni di Fabrizio De Andrè. Scommessa, dice? E sia.

«Noi “barocchi” siamo così: cerchiamo le sfide, inseguiamo le imprese impossibili». Lui è nato e cresciuto a Lecce, gli anni del liceo trascorsi al “Banzi”, il trasferimento a Roma per l’Università, Architettura, una passione ereditata dal padre, Nicolangelo, e dirottata verso altre forme espressive. La fotografia. La regia. «Venivo dalla periferia, era stimolante. Da una parte il nostro Salento, ancora fuori dalle rotte turistiche; dall’altra la metropoli e il suo carico di contraddizioni. Per me, da sempre appassionato di storia, “esse” maiuscola o minuscola che sia, è stato naturale raccontare i processi sociali e le traiettorie del cambiamento. La dialettica dei rapporti teorizzata da Hegel e Marx. Pier Paolo Pasolini aveva scavato a fondo in queste dinamiche, alla ricerca delle radici della nostra storia». La parola ritorna. In realtà qui un po’ tutto ritorna. Anche il tempo, racchiuso in una data: 1975. L’anno della morte di Pasolini. L’anno in cui avviene “La guerra dei cafoni”.

Il luogo è Torrematta, un angolo imprecisato della Puglia. Ogni estate si combatte una lotta tra bande: da una parte i pargoli dei ricchi; dall’altra i figli della terra. Nessuna traccia di adulti. La sintesi del film è questa. Il resto al cinema. Lo spoiler qui non è né vezzo né vizio. Nell’incipit della pellicola, il cammeo di Claudio Santamaria recitato in greco bizantino, perché la contesa “signori versus cafoni” si perde nella notte dei tempi. «Mi affascinava l’idea di rievocare il rapporto ancestrale con le nostre origini». Sullo sfondo, i paesaggi incontaminati di Torre Guaceto e delle Cesine, il lago di bauxite a Otranto e la scogliera di Santa Cesarea. Un paesaggio violento e abbacinante nella sua bellezza aspra e solare. Ruvida come i monologhi, intrecciati in dialetto e sottotitolati. Il miscuglio di idiomi racchiude in un pugno le sonorità di questa terra, che digradano da nord a sud. Di Bari è il leader dei giovin signori, Pasquale Patruno (nel film Francisco Marinho); di Gravina il capo della banda dei piccoli cafoni, Donato Paterno (Scaleno); di Lequile la ragazza che incarna l’attrazione degli opposti, Letizia Pia Cartolaro (Mela), punto di incontro tra bene e male. La chiave di interpretazione è nella sinossi del libro da cui tutto origina: “Metafora del cambiamento collettivo che in quegli anni trasfigurò il nostro paese”. Proprio così?

«Questo film è molte cose insieme e una in particolare: la democratizzazione dello sguardo. Tutto passa dall’instabilità in cui è indotto lo spettatore da un’operazione ardita: coniugare la commedia, comica e a tratti romantica, con una storia ricca di implicazioni sociali e culturali, in linea con il cinema del reale da cui proveniamo. Ognuno è chiamato a cercare la propria storia, a dare il proprio significato. Il nostro lavoro elabora gli anni ‘70 in termini antropologici: non è stato solo il periodo dei pantaloni a zampa d’elefante e dei telegiornali sul sequestro di Aldo Moro, ma un vero e proprio abito mentale. “La guerra dei cafoni” traccia così una potente allegoria del passaggio dall’Italia di ieri, dove il conflitto sociale era regolato da un ordine quasi cavalleresco, a quella di oggi, dominata dai consumi e dall’ambizione. Nella mia vita sono stato un privilegiato, lo riconosco; ma non dimentico la storia, la nostra storia comune. E in questo film rivivono, grazie alla forza espressiva dei piccoli attori, le contraddizioni di tutti i Sud del mondo». Altro sorso di Campari, altro sorriso. «Io mi considero un eterno adolescente, un felice ingenuo ragazzino. Ma quest’opera è anche frutto di una doppia paternità, la mia, con Giacomo e Nicola Leone, 12 e 7 anni, e quella di Lorenzo Conte. “Papà”, mi chiedevano i miei figli, “quando farai un film che possiamo vedere anche noi?”. Non è stato semplice. In Italia non si fanno film per e con ragazzi. Ma ci siamo riusciti».

Cinque anni di gestazione, doppio casting perché il tempo passato nell’attesa dei fondi ha fatto diventare adulta la compagnia reclutata nella prima infornata di selezioni in giro per la Puglia. «Torrematta è un’isola, un luogo dell’anima. La metafisicità dello spazio è stata essenziale per rappresentare una Puglia e un Salento non da cartolina. Finita l’euforia per la scoperta di un angolo d’Italia a lungo ignorato, il rischio è scivolare nella sua glorificazione. Abbiamo voluto evitarlo: c’è ancora un territorio inedito e sorprendente da ritrovare. Il film è stato girato in sette settimane ma abbiamo vissuto insieme per tre mesi con i piccoli attori, una ventina in tutto. Lavorare con gli adolescenti è complesso e meraviglioso. Abbiamo aperto ai ragazzi le porte del cinema, spiegando loro che per molti sarebbe rimasta un’esperienza unica. In cambio ci hanno trasmesso il senso della semplicità. Straordinario, per me che vivo tutto con molta ansia».

Il film ha già fatto il giro di Rotterdam, Buenos Aires, Pechino, Monaco di Baviera, Siviglia, New York, festival tra i più importanti al mondo. E ora il “David di Donatello”. Il canto di Raffaella Aprile, la compagna di Davide, madre dei suoi bambini, chiude il film. “Fei?” è una poesia in griko messa in musica. Sullo sfondo le luci dell’Albania. Lo sguardo resta rivolto a est. «Da piccolo - conclude il regista - mi affascinavano quelle montagne viste dal litorale leccese: apparivano dal nulla, sparivano all’improvviso. Per me erano il luogo della magia. La forza del cinema è nella capacità di emozionare. Ho voluto rappresentare una fiaba dopo quelle raccontate ai miei figli. Non mi aspetto nulla, ora, dal “David”. Solo il giusto». “Fei” significa fuggire, ma il punto interrogativo apre all’attesa. Forse è ancora tempo di restare. C’è ancora una Puglia da scoprire. E magari, chissà, anche un altro premio da ritirare.


 
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