Kim Rossi Stuart: «Sono stato veramente un ragazzo selvaggio»

Kim Rossi Stuart: «Sono stato veramente un ragazzo selvaggio»
di Malcom Pagani
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Domenica 21 Maggio 2017, 01:07 - Ultimo aggiornamento: 26 Maggio, 12:37

I simpatici gli stanno antipatici e i comici lo rendono triste: «Magari a volte sono involontariamente buffo, ma non è che sia mai stato un vero e proprio emblema di simpatia. Le posso dire la verità? Verso i campioni di socievolezza o nei confronti di chi deve farti ridere a tutti i costi ho sempre provato diffidenza. Mi insospettiscono. Recitare, soprattutto nella vita, mi sembra una fatica bestiale». Questa intervista si svolge in due tempi. Nel primo, una domenica immersa nel silenzio di una mattina ancora giovane, Kim Rossi Stuart, reduce da un febbrone, siede in una stanza luminosa, ha la voce roca e vorrebbe divagare più che essere interrogato. Nel secondo, sette giorni più tardi, cammina per la casbah del centro storico indifferente al concerto di clacson, nevrosi e ordinaria follia. Ascoltarlo restituisce in entrambi i casi la stessa musica severa e sofferta sia che argomenti lentamente, guardando altrove e concedendosi lunghe pause, sia che parli senza quasi prender fiato: «So benissimo perché ho iniziato a fare l’attore, ma perché abbia continuato a fare poi questo mestiere, sperimentandomi anche come regista, fino in fondo non lo so». 
 

 


Come non lo sa? 
«Potrebbe essere stato per debolezza, perché sono immerso in un meccanismo o semplicemente perché fin da piccolo sono stato quello che doveva saper fare le cose, superare le prove, non farsela sotto davanti alla macchina da presa o dimostrare che valeva di più delle copertine di Cioè. Oppure potrebbe dipendere da altro». 
 
Da che cosa? 
«Da un’altra possibilità che rappresenta la mia più grande speranza, che io sia un attore perché recitare è la strada che dovevo percorrere per provare a creare qualcosa di positivo. È difficile capire quali delle due ipotesi abbia indirizzato veramente la scelta». 

Lei ha 47 anni, non dovrebbe saperlo? 
«Invece ancora me lo domando. Tra un film e un altro prendo intervalli lunghi, anche di anni, ma con il set ho un rapporto controverso». 

Ce lo racconta? ​
«Roma è tutta un set. Passare in macchina sul Lungotevere e osservare i camion, le sarte che portano i vestiti o i truccatori con le valigette è quasi la normalità. Quando ne vedo uno di solito cambio strada. Mi assale una specie di rifiuto, di angoscia, di disagio, di “mamma mia fammi allontanare subito”». 

E si allontana? 
«Mi allontano eccome. È la stessa sensazione di estraneità che mi prende anche nelle prime settimane di un nuovo lavoro. Mi dico: «Cazzo, e adesso come ne esci?”. Poi mi calmo, mi rassereno, inizio a stringere rapporti umani, le cose vanno meglio». 

Suo padre faceva l’attore. A cinque anni, sul set di Fatti di gente perbene di Bolognini, la si vede assonnato su un vagone accanto a Catherine Deneuve. 
«Ci sono cose che mi ricordo in ogni minimo dettaglio, in maniera così circostanziata da averle davanti agli occhi. Freudianamente è facile ricostruire perché non me la sia dimenticata: bella, non particolarmente accogliente o affettuosa, abbastanza divina». 

Che altro ricorda di quel set? 
«I cioccolatini che Bolognini mi regalava per convincermi a recitare, ero finito in una scena quasi per caso e li avevo involontariamente costretti a dare continuità al mio personaggio». 

Suo padre girò decine di film. 
«Non tutti straordinari. Alcuni li ho visti, altri no. Certi erano interessanti e altri solamente brutti. Mio padre era un idealista, un uomo che non aveva nessun senso del denaro e dopo qualche delusione professionale scelse di ritirarsi in campagna tra cani investiti da soccorrere e curare o cavalli allo stato brado. Perché in fondo preferiva gli animali agli esseri umani e lo stato brado non gli dispiaceva. Era un contesto selvaggio, quello. Un posto in cui ho imparato cosa volesse dire autonomia». 

Lei suo padre lo capiva? 
«Più adesso di allora. L’ho amato molto anche nei contrasti, come si ama quando si ama davvero».
 
L’autonomia cosa voleva dire? 
«Per un ragazzo che stava tra Campagnano e Mazzano e vicino a casa sua aveva i vecchi stabilimenti cinematografici dei western all’italiana, quelli di Monte Gelato, voleva dire il mondo civilizzato. Vedevo Roma come una meta irraggiungibile e dovevo trovare un modo per raggiungere la città. Ci andavo in motorino o in autostop. Partite di pallone, turni di piscina, lezioni di teatro. Andate e ritorni abbastanza scriteriati, avventurosi».
 
Selvaggio il contesto, selvaggio lei? 
«Molti anni dopo il nostro fidanzamento da tredicenni, intervistarono la mia ex ragazza nel frattempo diventata celebre. Le chiesero come fossi all’epoca e lei rispose proprio così: “Kim era selvatico”».
 
E cos’è rimasto del ragazzo selvaggio di ieri? 
«Tutta la memoria di un bagaglio di follie che mi sembra meno folle del mondo proteso all’affermazione di sé, all’approvazione, all’essere accettati o riconosciuti a ogni costo come valori fondamentali dell’esistenza». 

È strano sentirlo dire da un attore. 
«Che io abbia scelto di fare questo mestiere o che questo mestiere mi si sia stranamente attaccato alle calcagna, non mi impedisce di ragionare e di vedere che in una società che mitizza ciò che non dovrebbe essere mitizzato, l’attore ha una sorta di aura immeritata».

Non le piace la società in cui abita? 
«Puoi decidere di starci o di allontanarti e metterti ai margini, ma no, non mi piace e un po’ mi turba. Contribuire al male oggi è molto semplice, ma per fare del bene non si riesce a trovare un buco che sia uno». 

Il bene e il male sono i due poli di Maltese, la fiction di Rai 1 che lei ha appena interpretato con successo. 
«Sono molto interessato al concetto del bene e del male, anche perché il commissario che ho incarnato, con quella fissazione di definire dove sia il giusto e cosa sia la verità, mi ha fornito le motivazioni adatte. Guardie e ladri, poliziotti e mafiosi. Un quadro nitido». 

Ha mai avuto amici poliziotti? Si è chiesto come vivano, cosa pensino, che sogni abbiano prima di vestire i panni di Dario Maltese? 
«La migliore amica di una mia antica fidanzata sarda era una poliziotta sposata con un altro poliziotto. Gente splendida, semplice, con il disprezzo per le sovrastrutture concettuali che detesto anche io, nella vita e nel cinema, e l’impagabile pregio della chiarezza». 

Fuori, nella realtà, il quadro non le sembra chiaro? 
«Posso dirle una cosa che non mi compete?». 

Perché non le competerebbe? 
«Perché ho la terza media. Però ho letto un articolo di Solženicyn del ‘78 in cui si spiega con chiarezza che nella società in cui viviamo si avverte uno squilibrio mostruoso tra la libertà di fare il bene e la libertà di fare il male. Che al male, anche solo per inerzia o per pigrizia, è più facile partecipare. Io credo che si debba iniziare a dire con precisione che cos’è bene e che cos’è male». 

E che cos’è male? 
«L’indeterminatezza che permette di fare passare tanta merda che io trovo poco etica e moralmente riprovevole. Le cose si travestono, prendono altre forme, si mimetizzano. E in tutto ciò, chi oggi parla di etica viene considerato dal sistema, nell’accezione più benevola un utopista e in quella più cruda, un fallito. Un modo per proteggere l’amoralità e il non-sense di un’umanità incline a scavarsi la fossa sotto i piedi. Cose da cui cerco di stare a chilometri di distanza, ambiti che non mi interessano». 

E cosa le interessa? 
«Avere la forza di essere come voglio essere». 

Il primo film al cinema se lo ricorda? 
«Tanti western, tanti Peplum a sfondo mitologico e tanti cappa e spada di ogni genere. Però il primo film di cui distinguo un’immagine chiara, irradiata da un televisore in bianco e nero appoggiato sulla mensola della cucina, è il racconto in cui un bambino prima di darsi alla macchia compie gesti di routine. Anni dopo ho scoperto che quel film di Truffaut si intitolava I 400 colpi».
 
La storia di un ragazzo inquieto, solo ed incompreso. 
«Il mio momento di fuga alla Holden Caulfield, l’ho avuto anch’io. Nel 1985, dopo i primi guadagni ottenuti per un film di Gigi Magni andai in un’agenzia di viaggi e presi il primo volo per gli Stati Uniti. In mano avevo un indirizzo che mi era stato dato da una mia zia che faceva la guida turistica e praticamente non sapevo una parola d’inglese. In America ero andato guidato dall’epica di De Niro e Pacino, accarezzando il sogno di vedere l’Actors Studio. In realtà feci soprattutto altro. Negli ultimi mesi, dopo essere stato ospitato qui e là e non avendo più i soldi per pagare l’appartamento dell’East Village, in realtà pieno fuori e dentro di sorci grandi come cinghiali, mi trasferii in Pennsylvania per lavorare in un maneggio tra biada e stalle».

Dalla campagna alla campagna. 
«Tornai in Italia dopo quattro mesi e poco dopo partii per le Filippine per girare un sotto-sotto Karate Kid all’italiana, il Ragazzo del kimono d’oro». 

Recitava solo per soldi? 
«Recitavo anche per soldi perché i soldi all’inizio erano un problema reale, tangibile». 

Come ha ovviato al problema? 
«Lavorando. Mi sono dovuto strutturare seguendo un ferreo senso del dovere con il quale faccio i conti ancora adesso. Un imperativo dal quale ogni tanto sarebbe salutare e allegro derogare per allentare la stretta».
 
La sua bellezza ha rappresentato un problema?
«Osservavo mio padre, un bell’uomo, non riuscire a essere completamente naturale con se stesso. Mentre recitava era prigioniero di un’immagine, del dover apparire belli, di un narcisismo che limitava le sue libertà espressive. Ho dovuto dimostrare di non essere solo un bell’attore, ma un vero attore. Non credo che l’Italia storicamente fosse comunque la patria d’elezione dei belli al cinema. Gassman, che aveva un volto da bello canonico, ebbe successo proprio quando si imbruttì come ne I Mostri, o ne I soliti ignoti». 

Bello era Mastroianni. 
«Ma neanche un po’. Mastroianni era un uomo meraviglioso che è tutta un’altra cosa».

Cosa è il bello per lei? 
«Comunicare davvero con gli altri e anche se a volte sono stato accusato di nutrire o alimentare lo snobismo o l’ elitarismo, non c’è niente che mi sia più estraneo dell’avere la puzza sotto al naso. Trovare i propri simili, per un timido è più difficile. Quando li incontri restano amici per la vita, il problema è che non sempre li incontri. Negli ultimi anni mi sono sforzato di stringere nuovi rapporti e se con qualcuno mi trovo bene, mi violento e cerco di aprire un dialogo. Lo scambio si può fare solo se si è in due». 

Come Nanni Moretti si troverà sempre d’accordo con una minoranza? 
«È un tema vero e ci sto facendo i conti. Ma solo nella vita. Al cinema è diverso e ormai credo sia importante raccontare su larga scala. Alla nicchietta del cinema d’autore non ho mai creduto e anche se in passato ci avessi creduto, ora non ci credo più. Il cinema, per definizione, è pensato per la più larga delle platee possibili. Cercherò di raccontare storie che siano fruibili per un pubblico vasto, ma considerando cosa è diventato oggi il cinema bisogna pensare a strumenti alternativi, alle piattaforme web o alla televisione. Ma senza compromessi e senza svendersi. Se non sarà possibile dovrò accettare di rivolgermi ai pochi che avranno voglia di sintonizzarsi con quel che racconto»

Chi è veramente un attore? 
«Tutto e il suo contrario. L’essere più inconsistente, vuoto e vanesio del mondo o qualcuno capace di accendere un lampo che aiuti a veicolare una presa di coscienza collettiva». 

Detta così sembra un mestiere impegnativo. 
«È complicato, ma francamente ci sono prove più dure». 

Lei ne ha dovute affrontare molte. Ebbe anni fa un gravissimo incidente in moto. 
«Ma anche lì, in fondo, mi andò bene. Tornavo da una partita di pallone e andavo piano. Il guidatore che mi investì mi vide all’ultimo istante e paralizzato dalla situazione non fu in grado di fermarsi. Se l’incidente lo avessi avuto quindici anni prima, oggi sicuramente camminerei male o addirittura non camminerei affatto». 

È tornato a giocare a pallone dopo anni nel ruolo di terzino, poi si è spostato al centro della difesa, per guidarla. 
«Sono vecchio, non ce la faccio più a correre come ieri, ma su un campo da calcio, come nel titolo del mio film, anche libero va bene. Da dietro le cose si vedono meglio, con più chiarezza». 

Kim Rossi Stuart ha fatto i conti con Kim Rossi Stuart? 
«Ci sto provando. Ci provo tutti i giorni».
 

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