Mino De Santis: il mio canto libero. Il Salento tra ironia e poesia

Mino De Santis: il mio canto libero. Il Salento tra ironia e poesia
di Rosario TORNESELLO
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Domenica 15 Ottobre 2017, 18:47
Il mondo è in questa stanza. Quello scritto, pensato. Immaginato. Il suo mondo, vissuto, cantato, è qui: corre sulle pareti, si acquatta tra gli scaffali, scivola lungo le corde della chitarra e invade la memoria del computer, sotto il monitor che è una tv, sotto la tastiera che appare e scompare. Sotto una montagna di idee. È tutto qui. Non manca nulla. Non adesso, non oggi, che c’è anche la quiete, il sole residuo dell’estate, la mollezza del sabato mattina, la sorpresa di aprire le porte di casa al nuovo arrivato, atteso ma altrove, l’incertezza di dire, la voglia di raccontare. La chitarra in un angolo, due microfoni incappucciati e protetti. Non avrebbe il tempo di depositarvisi, la polvere. È solo buona creanza. Le belle maniere di una volta. Quando anche le cose avevano un valore. Figurarsi le parole. Le persone.

Mino De Santis canta un mondo che resiste. Un Salento che va in vacanza quando qui s’abbatte il turismo. Ha 51 anni. Vive a Tuglie, il suo paese, da qualche tempo in questa nuova casa presa in affitto al centro della zona industriale, che essendo paese è campagna, e infatti il giardino corre tutt’intorno, come il terrazzo, che non affaccia su nulla ma respira aria a pieni polmoni, non come lui, lui Mino, che fuma fuori e dentro la stanza trasformata in studio sebbene sia camera da letto, talamo a due piazze da una parte e angolo di registrazione dall’altra, e lui fuma, quasi senza pensarci, non una dietro l’altra ma insomma, sì che alla fine ti alzi che sembri un fumetto, non tanto per le storie sentite, respirate, apprese, quanto per la nuvoletta che ti avvolge. Benedetti poeti. Fanno bene al cuore, ma così nuocciono alla salute.

Vabbè. Dicono sia il Fabrizio De André di noialtri. Voce profonda, passo lento, parole distillate e pesanti, cariche di vita e di rimandi, che anche se non vuoi ti ci rivedi dentro e sembrano parlarti pure quando preferiresti di no, perché qui il sarcasmo e l’amarezza chiamano all’appello, l’ironia e il grottesco invitano alla riflessione. E le immagini, traboccanti dalle rime, dalle strofe, dalla memoria, sono come la pioggia dopo il sole di agosto, quando rimbalza sulle zolle arse prima di penetrare in profondità. De André. Fa piacere questo accostamento, spiega. Ma i complimenti meglio lasciarli da parte, aggiunge. Dietro la scrivania, in alto sulla parete, un’immagine in bianco e nero di George Brassens. È la sintesi di un concetto. C’era il cantautore francese insieme con Leonard Cohen e Bob Dylan nella formazione di De André. E c’è tutto questo nella sua, sua di Mino. Ognuno è quello che vive, ascolta, assorbe, dice lui. E io sono io, non potrei essere diversamente: un uomo libero. Altrimenti non riuscirei a descrivere il mio mondo.

Lui è molte cose assieme, in verità. E molte ne ha fatte dopo il diploma all’Artistico di Parabita, settore arredamento, 1986. L’agricoltore, l’imbianchino, l’operatore culturale nel Museo della civiltà contadina che si affaccia in centro, a Tuglie, sulla piazza e sulla chiesa madre. Anche il commerciante. Abbigliamento intimo per donna, racconta. Non è andata molto bene. Prima o poi scriverà la Ballata di Equitalia per spiegare meglio. La burocrazia è poco sensibile alla poesia, per quanto faccia rima. E in tutto questo anche il matrimonio con Lella, l’arrivo di Giovanni, oggi ventitré anni. Ora fa (è) solo il cantante. Si lavora tanto, si tira tardi la sera, impossibile sommare impegni a impegni. E la mente ha bisogno dei suoi tempi, la creatività dei suoi spazi. Così la casa diventa luogo di vita e rifugio. La camera da letto si sovrappone allo studio privato e non ci sono diaframmi né sipari: la vita diventa canzone. E viceversa.

Diciamo che alla fine ha seguito una vocazione. E anche un consiglio, le parole sagge di Orazio. Non c’è più da quasi tre anni, l’uomo; per il padrone di casa, però, c’è sempre. La sua foto troneggia in alto a destra, sopra la chitarra. Era un imbianchino, per me era lu “mesciu”, racconta Mino. Ho lavorato con lui, spesso quando non avevo da fare mi chiamava a giornata. Ed è stato lui a dirmi di lasciar perdere con i lavoretti e di dedicarmi alle canzoni. Non giudicava da esperto, ma di sicuro parlava da cavia: toccava a lui ascoltare per primo ogni nuova creazione. De Santis gli ha dedicato una canzone nell’ultimo album, “Petipitugna”. Il titolo basta: “Jeu e lu mesciu”. Il resto è omaggio all’estro. E alla saggezza popolare. «Me tice: “Intra a dra capu attroa cci porti/ Ma sulamente jeu t’aggiu capitu/ Nu dare retta a cinca te scunzija/ Sentime mie taveru, vanne ccanta”/ Me rite, sullea la sopracciglia/ E sacciu ca alla chiazza poi me vanta». La foto lo ritrae proprio così: sopracciglio alzato, sorriso accennato. In caso di dubbi, guardare in alto a destra.

Non sono anarchico, spiega. Io sono io. Allergico alle regole: l’unica ammessa è quella te lu core. Semplice. Io dico quello che mi passa per la testa. Non chiedo niente a nessuno, ma non voglio che siano gli altri a dirmi cosa fare. Messaggio ricevuto. Il primo voto a 18 anni per Mario Capanna, Democrazia Proletaria; l’ultimo alle Comunali, ma per un amico. Ora non ci conto più, né su partiti né su politici, dice. Non mi interessa cambiare il mondo; è ognuno di noi che deve cambiare, in prima persona, dentro di sé. Il mondo sarà quello di adesso se l’uomo non cambia se stesso. Il De Santis-pensiero scivola liscio. Uno: la natura siamo noi, distruggerla significa annientarsi. Due: l’artista deve dire la sua, ma l’arte non deve schierarsi; non mi piacciono i palchi dove si sale per esibirsi con slogan stampati sulle magliette. Tap è un progetto orribile e la xylella ha dinamiche che non mi convincono: non può un batterio aver fatto un tale scempio da solo. Tre: non ci sono aiuti per musicisti, pittori e letterati; chi opera in questi campi deve saperlo.

Ha pubblicato quattro album. Per il quinto sta per entrare in sala di registrazione. Uscita prevista al massimo per giugno (non dalla sala, ma del disco). La produzione non è un problema; è la distribuzione il vero nodo. Quanto alla vena artistica, neanche a parlarne. Ammesso si dovesse esaurire, il cantautore ha da parte materiale per stare tranquillo fino a 80 anni. Apre lo scrigno del tesoro, e quindi accende il computer. Meraviglie. Una rivisitazione della “Buona Novella” di De André che preannuncia scintille. Non è cattolico, però è affascinato dalla figura del Cristo. Si dissacra solo ciò che si ritiene sacro, chiarisce. Così arriva un Cireneo da cui escono perle (“imputati siamo tutti, nessuno ne esce assolto”); un Pilato che smaschera ipocrisie (“la bellezza vista come provocazione”) e inchioda ciascuno alle proprie responsabilità (“mettere in croce un uomo tanto avanti... così finisce in croce l’intera umanità”). Più una rilettura del Testamento di Tito che già dalla prima strofa rende giustizia del riferimento simbolico di cui all’inizio. Ma questo è lui, il mito, Faber... No, risponde Mino, sono io. Gesù...!

Delle sovrapposizioni col Dante della Divina Commedia forse avremo un assaggio nel prossimo album. Per l’Ulisse, invece, chissà quanto bisognerà aspettare. Lavori pronti, tutti scritti e musicati. Come l’opera somma, “La Fosca”, solo nell’assonanza simile a “La Tosca” e però un dramma lirico, per di più in salsa salentina, e quindi dialettale, scritto dopo inattesa folgorazione alle prove di uno spettacolo in allestimento a Lecce. Ecco, il dialetto. Croce e delizia, ingrediente magico e insieme limite. Allergico com’è alle regole, lui guarda e passa: ci sono cose che sono intraducibili, altre che hanno bisogno dell’italiano, argomenta; così io uso l’uno e l’altro registro comunicativo. “Certi culi sono musica, fatti per esser cantati”. Detto così, a mo’ di esempio. Solare.

Due ore di chiacchiere e canzoni. I vestiti sono impregnati a sufficienza, ma chi lo sente più il fumo? Musica e poesia catturano i sensi. È troppo bravo, troppo umile. La mia ambizione è migliorarmi, dice con quell’aria mite che ti verrebbe da stringergli forte le spalle se non fosse che si è svegliato indolenzito a un braccio. Stasera si suona, meglio risparmiare le energie e preservare i legamenti. Surrogati non ce ne sono. Né aiutini da non dire, tanto per intenderci. La droga, assicura, è il peggio del peggio che possa esserci. Rende l’uomo artefatto, e perciò non più autentico. E io voglio essere me stesso sempre (applausi!). La mia unica sostanza stupefacente è l’ispirazione (bis!!). Benedetti poeti, fanno bene al cuore. E anche al cervello.


 
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