Raf in concerto a Lecce: «Questa volta canto la mia vita»

Raf in concerto a Lecce: «Questa volta canto la mia vita»
di Claudia PRESICCE
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Sabato 21 Novembre 2015, 13:07 - Ultimo aggiornamento: 15 Novembre, 18:21
«“Sono io” parla di me, per la prima volta voglio raccontare che sono un sognatore, un imbranato e anche un tipo scomodo»: lui è Raf e “Sono io” è il titolo del suo ultimo album, ma anche del “live tour 2015” che arriverà a Lecce il 19 novembre al Politeama Greco e a Bari il 20, al teatro Palazzo (le prevendite sono ancora aperte. I prezzi per Lecce sono: poltronissima 39 euro; I settore, 31 euro; II settore, loggione 23 euro. Info e prenotazioni: www.politeamagreco.it - 0832.241.468).



«Voglio raccontarmi a chi mi conosce solo per i miei brani più noti come “Battito animale”, “Ti pretendo” o “Sei la più bella del mondo” – spiega il cantautore di Margherita di Savoia – perché c’è tutto un lavoro dietro che completa il mio mondo artistico ed è in tanti pezzi rimasti in ombra che pochi conoscono. Vorrei che oggi venisse fuori chi sono io veramente. Nel mio album c’è l’elettronica, ma c’è anche il ritorno all’acustico. L’amore è il tema dominante, ma non manca il sociale, come in “Pioggia e vento” sul problema dell’immigrazione, un testo premiato al Salina Doc Festival 2015».



Quanto è cambiato il suo pubblico negli anni?

«Ci sono giovani, giovanissimi e tanti che mi seguono invece da sempre. Resistono al vuoto esistenziale, culturale che ci circonda, in cui molti sono proprio nati, un vuoto di ideali e di valori. Negli anni Ottanta c’è stato dato qualcosa che poi c’è stato tolto e quindi oggi siamo tutti arrabbiati. Le generazioni precedenti avevano meno stress, non dovevano correre come noi per raggiungere felicità effimere».



La sua musica racconta gli ultimi trent’anni, o quasi quaranta considerando la sua prima band, i Cafè Caracas della fine dei Settanta.

«Ero il componente di una band new wave italiana di quegli anni, ma non ero ancora Raf. C’era stata l’ultima vera rivoluzione del rock mondiale, che è stato il punk, con le sue tante tendenze fino alla metà degli Ottanta. Da allora in poi ci sono state solo mezze novità perché quel vuoto culturale di cui parlavo ha significato anche meno creatività. Quando da piccolo guardavo i Beatles pensavo fossero extraterrestri, non c’era mai stato niente di simile. Oggi le ragazzine che seguono Justin Bieber o gli One Direction, per dire due nomi a caso, ripetono rituali degli anni Sessanta. Neanche chi sperimenta fa più niente di straordinario».



E in tutto questo nel suo disco lei mette “Rose rosse”, una bella citazione al valore della memoria...

«Sì, è un omaggio a Giancarlo Bigazzi che è stato il mio primo produttore che mi ha insegnato come si scrive una canzone, dalla a alla z: io venivo dal punk e non ne avevo nessuna idea. Ho voluto ricordare lui, e Massimo Ranieri che è un grande modello, e poi è la canzone preferita da mia moglie, quindi l’ho riadattata e ho cambiato per lei anche alcune parole».



Quando ha cominciato lei non esisteva questo movimento che c’è oggi con una “pattuglia” pugliese che domina la scena musicale italiana…

«Sì, ma contatti con l’humus in cui loro sono cresciuti non ne avevo, li ho conosciuti a giochi fatti, perché quando si muovevano in Puglia io ero da tutt’altra parte del mondo. Però mi fa molto piacere perché quando avevo io 16 anni son dovuto andare via dalla Puglia per poter suonare e confrontarmi musicalmente con altri, prima Firenze poi Londra e Milano. Pensare che negli anni Novanta in Puglia si sono creati movimenti di giovani che sono riusciti ad avere fuori tale successo mi rende estremamente felice: vuol dire che qui c’è stato un grosso positivo cambiamento».