Gianni Boncompagni, addio al grande pigro e al grande spiritoso: il ritratto di Malcom Pagani

Gianni Boncompagni, addio al grande pigro e al grande spiritoso: il ritratto di Malcom Pagani
di Malcom Pagani
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Domenica 16 Aprile 2017, 18:17
Il grande pigro, se ne è andato in un giorno di pace e di riposo, senza giornali, senza lavoro, senza clamore. Il grande spiritoso che per gusto della burla vestiva spesso e volentieri in abito talare e in terrazza custodiva «Quattro Madonne acquistate a Porta di Roma», giocando ancora una volta con sacro e profano, ha salutato facendoci l’ultimo scherzo proprio nelle ore in cui si riflette sulla Resurrezione di Cristo. A suo modo e per acclamazione, Gianni Boncompagni, scomparsoi sul declinare dei suoi 84 anni- chissà il suo sollievo nel pensare di aver scampato l’ordalia di celebrazioni per gli imminenti 85- era una divinità.

Lo guidava la religione del laicismo, applicata e praticata con ammirevole coerenza fin dall’inizio degli anni ’40, quando ad Arezzo, disse poi: «Non esistevano neanche i semafori». Attraversando spesso con il rosso, Gianni esplorò prima degli altri sentieri sconosciuti. Nell’Europa del libertinaggio scandinavo da Zelig postadolescente alla fame scisso tra piccoli furti al supermercato e le vesti da chauffeur di Salvatore Quasimodo: «Lo scorrazzai per quattro giorni, il poeta si annoiava molto. Una mattina si rivolse a me e a Schiavo, un fotografo che mi accompagnava: "Ma non si fotte mai?”. Ridemmo, ma lo calmammo. "Maestro, non dica così. Qui di certe cose non si parla, venga a vedere i fiordi"». Nel tinello da ragazzo padre a tempo pieno con le buste della spesa e le figlie- grate- che anni dopo lo ricordavano come «impeccabile» genitore. In Radio con Renzo Arbore e Marenco tra gradimenti altissimi e bandiere gialle, sventolando rischio e ironia: «Puntai subito al “o la va o la spacca”, nella prima puntata mi lanciai stilando un elenco delle parole disdicevoli, vietate: “Membro, divorzio, sudore, peli”. Non mi cacciarono».
 
 


Il resto diventò storia capace di trovare repliche in tv- non certo e non solo per Ambra e la ragazza di Non è la Rai- perché lui e Irene Ghergo- a volte sfidando le ire del capostruttura, altre volte trovando appoggi in Freccero, a volte- il più delle volte- facendo finta di nulla e volendo sulle cose con distrazione- sapevano essere mente e braccio alternativi ma complementari di una tv che aveva studiato bene il decennio precedente. Di una tv che lavorava con costrutto sull’anticipo di mode, tendenze e provocazioni, che sapeva cosa significasse nazional popolare e non se ne vergognava. Quando parlavi con Gianni (che aveva un apparecchio acustico e non sentiva bene, ma capiva tutto e si faceva capire) ti raccontava di certi viaggi da fermo dal controllato esotismo che pure, nell’immobilità o quasi, lo facevano sognare. I carrelli di un cento commerciale in una domenica d’agosto, l’ultima novità di Internet, un pretesto per ridere perché ridere gli era sempre piaciuto. Se esclamavi la parola format metteva mano alla fondina e più in generale, se gli chiedevi della sua tv, lo trovavi a bardarsi dal lato della minimizzazione. Era già uno sforzo doversi spiegare- uno sforzo sovrumano- per chi era riuscito a mantenere l’incanto dell’eterno fanciullo centellinando le parole. Guardandosi indietro e sapendo di farsi consapevole torto, Boncompagni si definiva: «Un simpatico cazzone». Duro fino alla ferocia sull’universo giovanile che in radio e in tv nell’arco dei decenni aveva dimostrato di conoscere bene: «I ragazzi son destinati a rincoglionirsi. Li frequento e li trovo indietro. Non vanno mai da nessuna parte, figliano, si annoiano, si tradiscono, vanno a Ibiza in vacanza. Dovrebbero istituire una legge: “Vietato andare a Ibiza, un luogo terrificante, salvo permessi speciali per malattie incurabili”».

Disilluso sulla tv contemporanea: «La guardo poco, già farla mi sembra abbastanza grave». Tv che pure all’inizio degli anni ’80 tra un fagiolo, un’intervista e un ballo con Raffaella Carrà aveva condotto a essere la vera Terza Camera del Paese: «Auspico l'istituzione di una Guantanamo per la televisione di oggi. Io nelle vesti di capo unico e indiscusso e i penitenti, colpevoli di inventare programmi orrendi, in grisaglia arancione. Pene corporali ci vorrebbero, altroché, in questo stagno di raccomandati». Non prolisso sull’invenzione di Ambra: «Parlava con le mie parole. Nacque poi un’inutile fenomenologia del cazzo, ma lei fu brava. Le dicevo nelle orecchie battutacce oscene e non perdeva un colpo» , del tutto estraneo alla massmediologia e alla cattiva sociologia che unite rilessero il programma per divorarne la memoria fino a condannarlo accusando Bonco- che se ne fregava- di essere un pessimo maestro di morale: «Le ragazze erano bellissime, capolavori- disse lui- Ma il clima non era mignottesco. Irene Ghergo recitava da kapò. Se vedeva una punta di rossetto espelleva la figurante». Ora i suoi racconti meravigliosi, le sue astrazioni lessicali, il creare mondi da fermo per gli amici di una vita (Villaggio, D’Agostino, Ghergo) da Salgari del divano con una sola fulminante battuta, non c’è più. Chi resta non ci crede e visti i precedenti di Bonco, fa anche bene.




 
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