L'analisi/Emiliano da grande escluso a Lecce a "king maker" a Taranto, tra rischi e opportunità

L'analisi/Emiliano da grande escluso a Lecce a "king maker" a Taranto, tra rischi e opportunità
di Francesco G. GIOFFREDI
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Domenica 23 Luglio 2017, 17:53 - Ultimo aggiornamento: 18:23

Può un filotto di successi elettorali avere miracolose virtù taumaturgiche su coalizioni, partiti, leader? Apparentemente sì. Ma, appunto, solo in apparenza: il velo sollevato ieri dalle giunte di centrosinistra di Lecce e Taranto offre qualche indizio in tal senso. Soprattutto perché sono casi diametralmente opposti, quasi speculari, della relazione tra territori e Michele Emiliano, cioè l'uomo forte della scena pugliese e il principale teorico del (presunto) laboratorio sbocciato dalle comunali 2017. Si vira da un eccesso all'altro: a Lecce il governatore è stato del tutto estromesso dal lavoro di confronto, indicazione e selezione degli assessori; la giunta tarantina, che annovera componenti baresi, ha invece come nume tutelare proprio Emiliano, la cui sfera d'influenza in terra jonica è in progressiva espansione. Sullo sfondo resta il Comune di Brindisi, sempre più rebus: in chiave emilianiana è tanto una bruciante lezione (la sconfitta dell'anno scorso), quanto la più ostica sfida da approcciare nel 2018.

Le comunali e il "laboratorio". Un mese fa, le comunali pugliesi hanno invertito il trend nazionale: squillo del centrosinistra e implosione del centrodestra, nonostante la resurrezione berlusconiana, nonostante un ramificato governo dei territori pugliesi da lustri appannaggio di forzisti e fittiani, e nonostante performance del Pd - in quasi tutti i comuni pugliesi - risibili oppure già oltre la soglia d'allarme. Sul carro dei vincitori - in primis i sindaci di Lecce e Taranto, Carlo Salvemini e Rinaldo Melucci - hanno cominciato a sgomitare un po' tutti, dai renziani a Emiliano. Persino azzardando il profilarsi di un laboratorio à la pugliese, caratterizzato dall'ibridazione del Pd col centro, con la sinistra e col civismo di varia estrazione (anche di destra). Emiliano, che ha un'innata inclinazione all'inclusività onnivora di liste e dirigenti, ha cavalcato l'onda, al punto da proporsi come federatore nazionale del civismo in orbita Pd. Ora però le due giunte, leccese e tarantina, sono un led: lampeggiano indicando opportunità e rischi, a Emiliano e a tutto il Pd. E allora, in (quattro) pillole: no, è prematuro ed eccessivo discettare di laboratorio, perché a Lecce e a Taranto le vittorie elettorali sono state (anche) il fortunato intreccio di fattori non riconducibili soltanto ai meriti del centrosinistra; sì, il Pd pugliese resta un partito balcanizzato, diviso, spesso con deficit di personale politico; sì, per il Comune di Lecce c'è il rischio di sancire il grande freddo con la Regione di Emiliano; vero, a Taranto il sospetto del commissariamento barese può tracimare fino a diventare ulteriore disaffezione dei tarantini verso l'impegno civile e la cosa pubblica.

A Lecce. Con ordine, allora. Cosa è successo a Lecce? Nove assessori, tre esterni, due al Pd, zero in quota Emiliano nonostante il governatore si sia intestato il ruolo di regista dell'operazione Delli Noci (l'ex assessore candidato con una coalizione civica e poi alleato del centrosinistra al ballottaggio). Dicono: Salvemini poco avrà digerito la sortita del governatore dopo il primo turno, quando parlò di «peggior risultato di sempre del centrosinistra a Lecce» nonostante la coalizione avesse centrato il ballottaggio dopo 22 anni di egemonia del centrodestra. Allargando l'inquadratura: Salvemini, che rivendica (non a torto) l'autonomia come tratto peculiare del suo governo, difficilmente riuscirebbe a tollerare l'ombra ingombrante di Emiliano. La controindicazione è però tutta lì: dalla Regione transitano fondi, opere, opportunità, tavoli, e incrinare l'asse con Bari potrebbe alla lunga essere un pessimo investimento. Spetterà a tutti i protagonisti scindere i rispettivi veti personali dalle valutazioni di merito sui dossier: responsabilità e maturità. La matassa ha poi altri nodi: Salvemini ha sì stuccato moltissime crepe del centrosinistra leccese, ma la coalizione è da testare, peraltro il Pd salentino va rilanciato e ricostruito possibilmente all'insegna di una tregua, e certo un Emiliano in assetto da guerriglia non è una precondizione ottimale.

A  Taranto. A specchio c'è Taranto, città su cui Emiliano ha puntato molte fiches e da diverso tempo, tanto da farne un vessillo del suo protagonismo nazionale. Melucci, homo novus della politica, s'è iscritto al Pd e alla corrente emilianiana di Fronte democratico: finora ha scelto sei assessori, manager o dirigenti pubblici, nemmeno uno è pescato dai consiglieri comunali, solo tre sono tarantini, due (Rocco De Franchi e Aurelio Di Paola) sono baresi certo non sconosciuti - eufemismo - a Emiliano. «Per il bene della città metto al centro le competenze», spiega Melucci.

Ma la rivolta è già scoppiata, a partire dal centrosinistra. Anche qui, la medaglia ha due facce: Taranto è una città ferita, svuotata, preda di un caos socio-economico che ha scarnificato partiti e ceto politico e dirigente, e allora il sindaco è quasi costretto e battere altre strade per arruolare assessori, anche con apprezzabile coraggio; dall'altro lato, il segnale potrebbe però essere esiziale per una comunità a caccia di iniezioni di fiducia e di una politica rinverdita. Varchi in cui Emiliano si sta infilando con abilità: sempre più king maker - in presa diretta o con sponde parlamentari o regionali - degli equilibri tarantini, assestando spallate anche ai renziani. Così come per Salvemini, allora, spetterà specularmente a Melucci dosare fedeltà e autonomia, proficuo asse di ferro con la Regione e rischio sudditanza, pragmatismo e visione politica. Amministrare, oggi, vuol dire anche questo.

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