Le mani sulla città, chieste 48 condanne

Le mani sulla città, chieste 48 condanne
di Mario DILIBERTO
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Sabato 16 Settembre 2017, 05:30 - Ultimo aggiornamento: 21:05
Un conto da oltre quattro secoli di carcere. 
Per punire l’offensiva dei clan storici sgominata dalla Polizia con l’inchiesta “Città nostra”. Le pesanti richieste di condanna sono state presentate ieri mattina dal pubblico ministero Alessio Coccioli, al processo antimafia, che si celebra nelle forme del rito abbreviato a Lecce. 
L’epilogo della spettacolare operazione con la quale nel giugno dello scorso anno la Dda di Lecce e la Questura di Tarano stopparono il ritorno al passato ordito da nomi pesanti della mala “made in Jonio”. Boss dal passato cruento, decisi a riallungare le mani sulla città dopo aver scontato lunghe pene detentive.
Quel piano venne arginato con una raffica di fermi, 33 in tutto, con i quali il procuratore antimafia Cataldo Motta di intensa con il questore Stanislao Schimera, bruciarono sul tempo la strategia della mala. 
Quei provvedimenti, adottati d’urgenza, furono tutti convalidati e aprirono una breccia profonda nelle fila delle tre organizzazioni criminali inquadrate con le indagini. 
A giudizio, peraltro, alla fine sono arrivati in 48. 
Ieri mattina nella sua lunga e articolata requisitoria il pubblico ministero Alessio Coccioli, della Dda di Lecce, ha snocciolato prove e atti riguardanti ogni singola posizione. Chiudendo con la richiesta globale di 423 anni di reclusione. Un conto nel quale spiccano i 20 anni di carcere richiesti per il boss Mimmo Di Pierro, Proprio una sua frase, intercettata dai poliziotti, ha dato il nome all’indagine.
Una frase che Cosimo Di Pierro, detto Mimmo, amava ripetere ai suoi affiliati. 
Lui, uomo forte di quello che era stato il clan dei “Messicani”, è indicato come il regista della nuova offensiva della mala con la quale si voleva realizzare il progetto “Città nostra”, ovvero città sotto il tacco della mala. 
Una strategia pianificata a suon di bombe, estorsioni, intimidazioni e agguati a colpi di arma da fuoco che incendiarono il Borgo nel quadrilatero compreso tra via Dante, via Minniti, via Temenide e via Duca degli Abruzzi. 
Un quadro in cui oltre a Di Pierro, un ruolo di primo piano viene attribuito a Nicola Pascali e Gaetano Diodato. 
 
Intorno ai tre presunti capibastone si sarebbero raccolti vecchi malavitosi e nuove leve, in una graduale di conquista del territorio.
Un lavoro che aveva preso il via nel novembre del 2014 quando Di Pierro aveva lasciato il carcere dopo un lunghissimo periodo trascorso al fresco. Per lui arrivarono i domiciliari, e da quel momento sarebbe scattata la sua nuova scalata. Puntualmente sorvegliata dagli investigatori della Mobile. Venne accertato che in poche settimane era riuscito a ripristinare una fitta rete di complicità, incontrando diversi pregiudicati che lo avevano accolto «con saluti deferenti, baci ed abbracci». Così è ripartita la ricostituzione del clan. In breve tempo, il gruppo si sarebbe armato e avrebbe imposto il pizzo a commercianti del “Borgo” e agli spacciatori che operavano nel territorio conquistato dal sodalizio. Decisiva per l’indagine si è rivelata la “cimice” piazzata nella casa del boss. Grazie ai dialoghi intercettati si è ricostruita la mappa criminale del centro della città. Quei dialoghi costituiscono la pietra angolare dell’impianto probatorio alla base delle 48 richieste di condanna. Venerdì prossimo si torna in aula dinanzi al giudice Antonia Martalò, per le prime arringhe difensive. In programma, gli interventi degli avvocati Salvatore Maggio e Gaetano Vitale,
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