Viaggio tra le “polveri”
Ai Tamburi nel wind day

Viaggio tra le “polveri” Ai Tamburi nel wind day
di Nicola SAMMALI
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Martedì 23 Gennaio 2018, 06:00 - Ultimo aggiornamento: 11:19

«Qui viviamo tutti sotto la stessa polvere». Sul quartiere Tamburi splende il sole anche se è uno dei frequenti wind day, dieci dall’inizio dell’anno per altrettante chiusure delle scuole.
«C’è una luce meravigliosa» dice Ignazio, guardando fuori dal suo bar. «Ce l’abbiamo solo a Taranto». In piazza Gesù Divin Lavoratore non è una mattina come le altre. Sono passate da poco le otto e per strada la gente si conta appena. Soffia il vento da nord ovest, il vento dei veleni, e dai parchi dell’Ilva il minerale si alza e investe le case, le scuole, i negozi, la vita delle persone. Il rione chiude. Scattano le disposizioni contenute nell’ordinanza. È un giorno che non c’è da nessun’altra parte.
«Questo odore di ferro e gas» nell’aria diventa così acre e pungente che le narici dopo un po’ bruciano. La gola è secca, la saliva amara. «È come avere la ruggine in bocca» conferma Vincenzo, operaio della grande fabbrica, attivista impegnato sul territorio. Basta spostarsi di qualche metro e respirare diventa più difficile. Più ci si avvicina agli impianti del siderurgico più la cappa diventa pesante. «Noi ci siamo abituati, certe differenze non le senti più».
Chi ci abita, all’ombra delle ciminiere, convive ogni giorno con fumi, polveri, rumori. Ogni giorno è un problema respirare. Poi arriva il wind day e tutto peggiora. La salute dei cittadini è ancora più a rischio quando è esposta così violentemente. «Capita di considerare seriamente la possibilità di riorganizzare la nostra vita altrove, soprattutto se penso che in tre giorni sono stato a tre funerali. Ci sono più manifesti funebri che persone ormai» riflette Vincenzo mentre attraversa le vie commerciali dei Tamburi, completamente deserte.
Il mercato rionale, via Orsini, via Galeso, via Masaccio, le zone più vive del quartiere, lo sono molto meno nei giorni di wind day. Si resta tappati in casa, con le finestre chiuse. «Qui siamo ospiti in casa nostra». Le attività aperte sono vuote. Si blocca la micro economia. Dai panifici, alle macellerie, ai supermercati. I commercianti aspettano i clienti dietro le vetrine. Sono le nove del mattino e non si vede nessuno con le buste della spesa piene. Una donna cammina lungo il marciapiede e si copre il naso con la sciarpa per proteggersi. Per questo c’è chi si organizza il giorno prima, perché il wind day rompe le abitudini, le modifica. Finisce col condizionare le attività quotidiane di una famiglia. Tutto dev’essere riprogrammato se c’è wind day.
Ma c’è chi ignora, e sono tanti, cosa sia un wind day. I bambini non vanno a scuola, ma alcuni genitori, come già accaduto l’altro giorno quando hanno incontrato dopo una lunga attesa il sindaco Melucci, si sono riuniti ancora una volta davanti alla scuola Deledda. Sono mamme e papà, una ventina, determinati a far crescere la consapevolezza sui «diritti negati» ai propri figli.
Il diritto allo studio, alla salute, a vivere una condizione di normalità in un posto che sembra dimenticato. Un posto dove le contraddizioni sono tante. Venerdì scorso, infatti, racconta la signora Vanessa, «abbiamo ricevuto una comunicazione dalla dirigente dell’istituto comprensivo “Vico De Carolis” per quanto riguarda le attività didattiche extrascolastiche dei nostri ragazzi». Attività che, si legge nell’avviso, si svolgeranno regolarmente anche nelle giornate di wind day, previa autorizzazione dei genitori alla partecipazione all’evento proprio alla luce delle particolari condizioni atmosferiche e ambientali. D’altro canto si tratta di spettacoli pagati e fissati da tempo.
Un progetto, in particolare, terrà impegnati gli alunni dalle 8.30 alle 12.30. «Ma come è possibile - protestano i genitori - tenere le scuole chiuse nei giorni di wind day e allo stesso tempo autorizzare quelle attività?». Il paradosso è che a pochi metri dalla Deledda, al teatro Tatà, alle 10 di ieri mattina è previsto uno spettacolo dedicato ai più piccoli. Ed erano tantissimi i bambini che hanno partecipato. In pochi minuti il piazzale davanti alla struttura si è animato, anche se qualcuno non ha condiviso la scelta.
«Ho portato mia figlia - sbotta una mamma - soltanto perché non potevo dirle di no, visto che partecipava tutta la classe. Se devo far uscire di casa mia figlia in giorni come questo allora deve poter andare a scuola». Poi c’è anche chi ha pagato il biglietto ma ha preferito tenere a casa i figli. E c’è chi col passeggino al seguito accompagna i propri figli allo spettacolo. Arrivano anche scolaresche da fuori, Crispiano per esempio, per entrare a teatro.

 

Intanto davanti alla Deledda continua il confronto. Il problema, sostengono, è anche per i più grandi che vanno a scuola in città: anche loro aspettano l’autobus sferzati dal vento, anche per loro c’è pericolo, dicono. C’è un altro operaio Ilva che spinge per la chiusura, e c’è anche un lavoratore del porto che ritiene lo scalo tarantino la chiave per la rinascita dell’area ionica. Sono stanchi di vivere così. Non credono alla copertura dei parchi minerali ma chiedono la chiusura e la riconversione.
«Quando entri in casa senti il minerale sotto i piedi sbriciolarsi». Lo raccolgono sui balconi, sui davanzali delle finestre, sul pavimento. Quello che respirano e che entra nei polmoni è quello che temono. Ognuno di loro ha un parente, un amico, un coniuge che non c’è più, strappati alla vita «in soli sei mesi. Nemmeno il tempo di rendersene conto».
 
Poi si spostano di nuovo in piazza Gesù Divin Lavoratore. Sono le 11 e non è cambiato molto rispetto a tre ore prima. Il vento adesso soffia più forte. Qualcuno esce dalla chiesa, qualcun altro cammina col passo svelto.
«I cornetti sono ancora tutti qui» racconta Ignazio. «Di solito a quest’ora la gente del quartiere viene a mangiare un pezzo di focaccia, beve qualcosa e poi torna a lavorare». Il commercio va in ginocchio se c’è un wind day. È un dato di fatto. «Perdiamo anche il 40% di incassi» rivela un macellaio della zona. Non tutti ne parlano volentieri, ma il loro scuotere la testa non lascia dubbi. Al danno sanitario si aggiunge quello economico, in un contesto dove le difficoltà sono molteplici, dove «c’è chi non mangia e rovista tra rifiuti e scarti. È facile trovare chi aspetta che qualche negozio si liberi di un po’ di merce». In questo quartiere ci sono «attività storiche, mi viene da pensare alla ferramenta, al negozio di alimentari qui vicino: sono un collante sociale importante».
In via Verdi, un’anziana si affretta a tornare a casa. Porta con sé un cestino della spesa colmo. «Ho preso quello che mi serve, non potevo fare diversamente anche se conosco il pericolo della polvere che respiriamo». Splende il sole nonostante il vento e così quegli stessi bambini che per l’ennesima volta in questo anno scolastico hanno dovuto rinunciare alle lezioni, sono scesi in piazza per tirare due calci al pallone. Come avviene normalmente da qualunque altra parte. Giocano spensierati in piazza Masaccio, altri magari guardano dalla finestra.
Sono le contraddizioni di un quartiere dove l’unico assembramento di persone all’aperto è la fila di chi aspetta fuori da uno studio medico, triste paradigma di un quartiere malato.
E solo.

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