Di padre in figlio/ I Cosentino: la toga tra aula e palco (e non c'è bomba che tenga)

Di padre in figlio/ I Cosentino: la toga tra aula e palco (e non c'è bomba che tenga)
di Rosario TORNESELLO
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Domenica 21 Ottobre 2018, 20:32 - Ultimo aggiornamento: 20:33
Se pensi che il colore della paura sia il nero, forse ti sbagli. E sbagli anche se credi che il nero, col bianco, sia la varietà cromatica del tempo trascorso, il lento sbiadire delle cose andate, magari per sempre, e in realtà relegate in un angolo della memoria, non dimenticate, solo riposte. Appunto. Lì in attesa di nuova vita, nuova luce. Nuovi colori. I ricordi hanno sfumature tutte loro e si modellano, cambiano forma, si plasmano sui racconti. Per la precisione, sono malleabili. Ma qui nero è un indumento, non un sentimento; tiene insieme le generazioni e marca il senso di un impegno che scava nelle viscere dell’animo umano alla ricerca della migliore approssimazione possibile all’unico concetto per cui valga la pena battersi: la verità. Il senso della giustizia è in questo, al di fuori della punizione, oltre l’espiazione. Nero è il colore della toga, per loro magistrati.

Francesco e Salvatore Cosentino, padre e figlio. Leccesi. Ma la storia comincia molto prima, da Bagnara Calabra (si poteva intuire, visto il cognome. Con calma ci si arriva). Molto li accomuna, molto li differenzia. I numeri ricorrono e si richiamano: 36 e 66 le date di nascita; 59 e 89 gli anni della laurea; 63 e 93 quelli del primo incarico in magistratura, l'uno pretore a Modena, l'altro sostituto procuratore a Locri con le nuove leve in prima linea, i giudici ragazzini di Cossiga. Il padre quasi sempre giudicante, in pensione da un bel po'; il figlio sempre requirente e ora in organico alla Procura generale di Lecce guidata da Antonio Maruccia. Il primo, Francesco, schivo e riservato, casa e lavoro e stop, insomma («Ricordo una sera, al rientro dopo la consueta camera di consiglio, tanta gente per strada in piazza Mazzini. Che ci fanno fuori, a quest'ora?, chiesi al giovane collega che mi accompagnava. Quello che fanno sempre, la risposta; gli anormali siamo noi»). Il secondo, Salvatore, estroverso e multiforme, attore, cantante e autore teatrale, ultimo spettacolo l'altro sabato al Teatro Apollo, Eva non è ancora nata, storie di donne, crimini, diritto ed estetica, sala piena («Possiamo dire che il palcoscenico è la continuazione della toga con altri mezzi; che ne dice come catenaccio per il pezzo che scriverà?». Aggiornare la sintetica nota biografica: ghostwriter anche, ecco). Completa la famiglia la signora Anna Troso, 80 anni, insegnante di matematica. «Papà fa di tutto una tragedia; mamma di tutto una commedia. Ed è il genere che preferisco». Il punto di svolta è lei. Diceva al suo ragazzo che la vita è un giardino con tante aiuole, e tutte da coltivare. Donna saggia.

Piccola parentesi a proposito del nero-paura e del bianconero-ricordi. Serve a inquadrare i personaggi, a capire la storia, a comprendere il contesto. Francesco Cosentino è il presidente della Corte d'assise chiamata nel 1990 a celebrare il primo maxiprocesso alla Sacra Corona Unita, De Tommasi +132, riferimento al boss di Campi arrestato l'anno prima in un covo di Gallipoli con un manipolo di fedelissimi. Si comincia il primo ottobre, si finirà il 23 maggio 1991: per la prima volta (in parallelo con quanto farà in Corte d'appello per un faldone arrivato da Brindisi un altro giudice di primo piano, Mario Buffa, poi al timone del secondo maxi alla Scu, cognato di Cosentino e papà a sua volta di un altro giovane magistrato, Francesco, altra storia), per la prima volta - si diceva - viene riconosciuta la natura mafiosa dell'associazione criminale salentina. Tensione alle stelle, tentativi di ricusare i giudici, minacce di sciopero degli avvocati per il ritmo delle udienze. E in tutto questo la sera del 10 novembre, un sabato, qualcuno che colloca cinque chili di polvere da mina davanti a una palazzina di via Cosimo Di Palma, a poca distanza da piazza Mazzini, lì dove fino a pochi giorni prima abitava il giudice Cosentino. In una cabina telefonica un biglietto minatorio: Questo è l'avvertimento. La prossima volta salterai in aria tu, la tua famiglia e chiunque prenderà il tuo posto. A far ritrovare bomba e messaggio due telefonate anonime alla redazione di Quotidiano. Nei giornali si faceva (e si fa) anche questo.

Abitava è il tempo imperfetto di un'azione imperfetta. «Quella sera ero appena rincasato - racconta Salvatore -. Squilla il telefono, all'altro capo il dottore Rocco Gerardi, grandissimo poliziotto. Hanno piazzato una bomba sotto la vostra abitazione, non vi preoccupate, è tutto sotto controllo, stiamo arrivando. Dissi che in realtà non c'era nulla ed era tutto tranquillo, forse si trattava di un errore. Avrà pensato che fossi il figlio scemo, mi chiese di parlare con papà». La famiglia Cosentino da qualche giorno si era trasferita poco distante, in via Salandra, accanto all'Hotel President. Non si era accorta di nulla. Davvero non ne sapeva nulla. «In effetti, non c'era da allarmarsi. Gli autori di quel gesto non sapevano neppure del nostro trasloco. Pura commedia dell'arte. Quando vogliono farti del male, non sbagliano. Il primo a tranquillizzarci fu Cataldo Motta: nel processo in corso sosteneva l'accusa assieme a Francesco Mandoi». Vecchio rito: il pubblico ministero sedeva accanto alla Corte, gli avvocati tutti di fronte. Altri tempi. Paura? «Ma no: pochi giorni dopo - ricorda Salvatore -, il 13 dicembre, avrei sostenuto gli esami per entrare in magistratura. Ed era la mia sola preoccupazione». Paura? «Mai per il mio lavoro - racconta il padre -. Men che meno per quella bomba. La matrice era chiara. Arrivammo a sentenza con grande serenità. Avevo accanto a me un giovane magistrato, bravissimo, Riccardo Mele. Nelle pause si allenava: era un valente podista. Mi toccò però avere la scorta. Ne approfittai per lunghe passeggiate con gli agenti: molti erano salentini, fuori per servizio ma applicati a Lecce - con loro grande gioia - per la mia tutela. Due mesi dopo il verdetto chiesi di togliermela. Non era più il caso».

Notevole parentesi, d'accordo. Ma la storia merita rispetto. Ora avanti, ma su piani separati. Crodino e due mandorle, Salvatore Cosentino riannoda i fili del passato per spiegare il presente. «Papà sperava che facessi l'ingegnere come suo padre, Salvatore anche lui, figlio di Francesco, arrivato alla fine dell'800 da Bagnara Calabra a Campi Salentina, dove aveva delle zie: qui conobbe la donna che poi avrebbe sposato, una ricca dama del posto. A Giurisprudenza sono approdato per esclusione seguendo l'influenza della mia insegnante di Filosofia al liceo Banzi, Mirella Mallia, le scienze umanistiche come racconto, come ricerca». Ventidue esami a Bologna, solo due 30 e tutti gli altri con lode. Chapeau. «Mio zio Mario me lo disse: sarebbe quantomeno delittuoso non tentare il concorso in magistratura». Centrato a primo colpo. Locri, Taranto, Locri e ora da un anno a Lecce. La vocazione artistica ha un percorso parallelo. Sorprendente. Complicato. «Fino a 16 anni balbettavo. Il canto e la recitazione mi hanno aiutato a superare il problema, a recuperare fiducia, a trasformare lo scherno in apprezzamento». Ci sono tappe indimenticabili nei percorsi della vita: A me gli occhi, please di Gigi Proietti, disco comprato dalla madre nel 77, e i vinili di Giorgio Gaber collezionati da zio Mario. Teatro canzone che penetra sotto pelle ed entra in circolo. «L'idea di uno spettacolo mi è venuta negli anni di Locri, dopo un convegno con magistrati, avvocati e giornalisti, Il giurista nell'arte. Ci ho messo dentro tutto: canzoni, cinema, teatro, anche balletto con il valzer delle responsabilità. Capirai, erano gli anni di Scajola e Schettino... Opera prima, Un diritto... messo di traverso. Il teatro è davvero la continuazione della professione con altri mezzi. Ti porta a scavare nell'animo umano. E il processo, del resto, è psicologia della testimonianza. Peccato non si studi all'università». Sul palco comincia ad affacciarsi il figlioletto, Francesco pure lui, sei anni. Duetti in musica quando si parla di legalità. L'altro Francesco, il senior, segue in platea. «Con papà condivido il senso del dovere, la cultura della professione come servizio. Ma da lui mi distingue l'atteggiamento verso la vita. Io oso. Lui no».

Il padre, eccolo. È a casa. Apre la porta, un gentiluomo d'altri tempi. Nessuna traccia degli occhiali spessi inforcati nelle foto d'epoca. Il bianconero lascia posto alle sfumature giallo ocra del salotto, al rosso del maglioncino. «Sono contento del percorso di Salvatore. Sì, lo avrei visto ingegnere: al contrario di me, era bravo in matematica. Ma va bene così: diceva sempre che non avrebbe voluto fare la vita di papà. Pm e giudici hanno orari differenti». È in pensione dal 2004: tornò da Roma, dalla Cassazione, portandosi appresso un fascicolo pesante, il conflitto di attribuzione sul processo a Sergio Cragnotti per il crac Cirio. Prima di ripartire lo chiamò un amico medico, Renato Esposito: le analisi di routine erano sballate. Tumore. L'operazione, la chemio. Poi la decisione di chiudere la carriera. «Non me la sentivo più. Tuttavia quella disavventura ha cambiato il mio modo di vedere la vita. Problemi ridimensionati. E viaggi per recuperare la sfera normale dell'esistenza, noi gli anormali. Però prima in magistratura c'era più entusiasmo». L'anno scorso un'ultima prova, anche questa superata: ischemia. Il ricovero al Fazzi, la riabilitazione, il recupero in venti giorni sotto la guida del primario, Giorgio Trianni. A casa avevano già comprato la sedia a rotelle. «È rimasta in garage». Nero, appunto, è solo il colore della toga. E del caffè che presto o tardi prenderemo. Promesso, presidente.

 
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