Gli ultimi maestri d'ascia. Anche il mare ha le sue forme

Antonio Magno al lavoro nel suo cantiere di Gallipoli (foto di Alessandro Magni)
Antonio Magno al lavoro nel suo cantiere di Gallipoli (foto di Alessandro Magni)
di Rosario TORNESELLO
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Domenica 3 Febbraio 2019, 19:13 - Ultimo aggiornamento: 19:24
Labbici. Non chiedete dove cada l’accento. Se ci siete dentro, non sarà la vostra principale preoccupazione. Garantito. Sullo Ionio entra quasi in perpendicolare: arriva da sud-ovest, scompiglia quanto basta e non c’è versante che ripari. Per tutti gli altri è libeccio. A Gallipoli no: labbici, da cui labbiggiata. La traslazione da “c” a “g” è un altro dei misteri gaudiosi di questa terra imperscrutabile, una repubblica marinara autonoma e indipendente anche nella rosa dei venti, che qui usano ruotare di 45 gradi in senso orario: se viene da sud-est diventa lavantara (levante) anche se è scirocco; se da sud, invece, scirocco (con la variante di squaijatu quando oltremodo appiccicoso) sebbene in realtà sia solo ostro. Poi ogni tanto qualche diportista della domenica col suo yacht plana rovinosamente sull’isola di Sant’Andrea e ci si chiede con stupore perché: semplice, devono averla spostata nottetempo. Comunque, solo un vento è più devastante del labbici, da queste parti: il ponente maistru. Arriva da ovest-nord-ovest e se avete barche in mare (o anche solo panni stesi) addio, non c’è banchina o rifugio che tenga. Quanto tenga la barca, invece, tecnicamente è un altro discorso. Siamo qui apposta. Cominciamo.

Li chiamano maestri d'ascia per evidenti motivi. Non sono scomparsi, ma ne sono rimasti pochi. Diciotto per l'esattezza nel comprensorio della Capitaneria di porto di Gallipoli, e cioè da Punta Prosciutto, al confine con Taranto, fino a Castro, sul versante adriatico. Il più fornito, sotto questo aspetto. Per trovarne in numero superiore bisogna dirigersi verso Bari e anche oltre. Non è pedanteria da legulei: nei numeri c'è la variazione altimetrica di un mestiere - quello di costruttore di barche - esposto ai venti della modernità, alle sferzate della vetroresina in particolare. Una volta non c'era altro modo per salpare: il primo passo era un buon legname, il secondo mani sapienti di artigiani, il terzo sufficienti abilità marinaresche. Oggi il primo e il secondo step si possono superare con un solo balzo, l'industria forgia modelli a stampo di qualsiasi forma e per tutte le tasche; il terzo sono affari vostri. Ma se il mare è una passione profonda (e anche il portafogli è alquanto capiente), sempre qui dovrete far tappa. Dai maestri d'ascia.

Il mestiere è antico (ma non il più antico, basta poco per equivocare). Abilità e bravura sono frutto di anni di lavoro e di esperienza: la differenza si vede, si sente, si tocca. Comunque sia, i requisiti minimi sono abbordabili: 36 mesi di apprendistato, esame al cospetto di un ingegnere del Registro navale italiano e un ufficiale della Marina e poi l'inserimento negli elenchi dei costruttori di barche. Maestri d'ascia, appunto. Fino a cinquanta tonnellate di stazza, più o meno trenta metri di lunghezza, fanno tutto loro. Un'enormità, d'accordo. Chi osa di più ha bisogno di professionisti e tecnici per la progettazione e la supervisione. Ma a quel punto saremmo al di là dei limiti dell'immaginazione (e col conto in banca forse anche ben oltre il confine, diciamolo).

Diciotto, allora. Decenni fa un esercito; a Gallipoli era tutto un tintinnare di ferri, legno, mazzuole e attrezzi vari: l'ascia per sagomare, la pialla per levigare, il martello per inchiodare, la malabestia e il maglio da calafato (si chiamano così, non fate quella faccia) per impermeabilizzare. Nei primi anni Duemila, di mastri artigiani se ne contavano quindici. Ora si torna a salire. Di poco, ma è già tanto. Agli anziani subentrano i giovani. Non tutto è perduto. Ma ci vogliono pazienza e molto spirito di sacrificio. Quando non si costruisce - ormai sempre meno - si ripara. O si recupera, restaura e ristruttura. Che a volte è impresa ancor più complessa: se ti portano un gozzo cabinato di quarant'anni acquistato al nord, frequentato ormai solo da tarli e funghi, e te lo presentano dopo mille chilometri percorsi da Genova fin qui, dal luogo della transazione a quello della possibile resurrezione, fra strade, autostrade, discese ardite e risalite, non hai molte possibilità: o inviti gli amici e fai un bel falò o, al contrario, compi un vero miracolo. Antonio Magno vi aspetta per quest'ultimo. Per la fòcara non si è ancora attrezzato. Dategli tempo.

Il suo cantiere è lì da cinquant'anni, in zona Fontanelle, tra il vecchio ospedale e il porto, accanto a una sorgente d'acqua, a ridosso della vecchia tonnara, l'ex Capo Rais, una delle due attive un tempo in città (l'altra era alla Giudecca, a scirocco; insomma, dall'altra parte). Lui di anni ne ha 64 ed è figlio d'arte. Suo padre, Cosimo, era maestro d'ascia sulla Cristoforo Colombo, una delle due navi scuola della Regia Marina insieme con la gemella, l'Amerigo Vespucci. Una storia a parte: cento metri di lunghezza, 400 persone a bordo, quattro cannoni e quattro mitragliatrici, la Colombo riparò a Brindisi il giorno dell'armistizio, l'8 settembre 1943, per essere poi ceduta ai sovietici in base ai trattati di pace siglati a Parigi il 10 febbraio 1947. I russi la ridipinsero di grigio, poi la utilizzarono per addestramento, infine la impiegarono per trasportare legna e fu il disastro: distrutta da un incendio nel 1963, venne demolita. Cosimo nel frattempo, sbarcato a terra, aveva aperto il suo primo cantiere alla Purità, si era trasferito dietro al Canneto e infine sistemato qui, zona Fontanelle. Lui non c'è più da quindici anni: se n'è andato che ne aveva 80. Da allora va avanti Antonio. «Sono cresciuto seguendo mio padre, la passione è venuta così: la mattina mi accompagnava a scuola con la Vespa e quando uscivo correvo in cantiere», ricorda. I suoi figli non sono stati da meno. Con qualche differenza: lui si è diplomato al tecnico professionale, loro al liceo classico. Mimmo (Cosimo, come il nonno) e Andrea, 37 e 35 anni. «Avrei preferito proseguissero gli studi». Il richiamo del mare è stato più forte. Hanno lasciato l'Università - Economia il primo e Biologia il secondo - per seguire il padre e il nonno. Dal 2010 anche loro sono maestri d'ascia. La piccola di casa, Rita, prossima ai 18 anni, non segue la scia (la battuta prima o poi sarebbe arrivata) e si tiene alla larga. Almeno per ora. In compenso a coadiuvarli sul cantiere c'è Bruce. Fa l'uomo d'ordine. Si aggira tra chiglie e carene. Vigila agli ingressi. E all'occorrenza abbaia: è un incrocio tra un bull terrier e un boxer. Sarà per questo che è sempre dietro l'angolo.

«Se ci fossero le strutture adatte, questo mestiere avrebbe un futuro magnifico», spiega Magno. Occhi azzurri, barba bianca, volto abbronzato. Se pensate a un lupo di mare, eccolo. «Una città come Gallipoli dovrebbe avere non solo un porto turistico ma anche strutture a terra adeguate. Di mare non si vive solo d'estate, ma anche nel resto dell'anno: riparazioni, rimessaggi, costruzioni. C'è un mondo in attesa di esplodere. E invece siamo qui, io come gli altri colleghi, tra pastoie burocratiche e concessioni che si rinnovano ogni quattro anni. Difficile fare progetti a lunga scadenza. In queste condizioni, pressoché impossibile investire». Ha una gru per muovere imbarcazioni imponenti, uno scalo d'alaggio con sistema a invaso per tirare in secco pescherecci e yacht anche superiori ai 30 metri. Le tecniche evolvono, le attrezzature anche. Ma se si tratta di costruire, si segue il vecchio schema: mezzo modello in scala per le misure, piano di costruzione a terra su legno sagomato, chiglia con trave in quercia (ora anche in iroko o azobè), ordinate per l'ossatura, bagli tra le opposte murate per il piano di calpestio, fasciame lungo lo scafo. Per ultimo il calafataggio, e cioè l'impermeabilizzazione tra le tavole: una volta con fibre naturali impregnate di pece, oggi anche con resine sintetiche e catrame. Comunque rigorosamente a mano. Sempre con malabestia e maglio, lo scalpello e la mazzuola. È l'ultima immagine di Antonio sul cantiere prima di chiudere bottega, ormai al tramonto. Stessa posizione e identica operazione del padre, Cosimo, sbarcato dalla Colombo e rimasto qui dopo la guerra. A Gallipoli. A dare una forma al mare.


 
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