Il “diritto dei cattivi” tra il bene e il male. Il libro di Barbano (L'inganno) e il ruolo dell'Antimafia: lettura critica di un fenomeno

La cattura del boss Matteo Messina Denaro
La cattura del boss Matteo Messina Denaro
di Rosario TORNESELLO
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Venerdì 20 Gennaio 2023, 12:34 - Ultimo aggiornamento: 18 Febbraio, 05:03

È un libro da leggere fino in fondo e tuttavia da maneggiare con cura. Per vari motivi. Primo, perché esplosivo, fin dal titolo e dalle premesse. Secondo, perché imbottito di dati, fatti e circostanze, eclatanti e dettagliati (nomi inclusi). Terzo, perché muove addebiti a tutto tondo senza risparmiare nessuno, giacché la trama e l’ordito degli eventi descritti hanno nell’impuntura delle contestazioni frontali, delle accuse dirette e dei rilievi di merito la chiave stilistica e narrativa (“cane da guardia” per imprinting professionale). Quarto, perché dalla sua uscita, ai primi di dicembre, scatena dibattiti e alimenta polemiche. Quinto, perché punta a una presa di coscienza per una rivoluzione culturale. Col merito – evidente – di sottolineare errori e omissioni, eccessi e storture. E tragedie, anche. Detto questo, ecco “L’inganno” (sottotitolo: “Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”, Marsilio editore). Autore Alessandro Barbano, giornalista e saggista, già direttore del Mattino e, prima ancora, vicedirettore del Messaggero e di Quotidiano e ora condirettore del Corriere dello Sport. Ci sarebbe un sesto motivo; forse anche un settimo. Vediamo.

Dunque, l’inganno. Il risvolto introduce il tema, sintetizzandolo con evidente impatto evocativo: “Una potente macchina di dolore umano non giustificato e non giustificabile, che adopera un diritto dei cattivi introdotto dopo l’unità d’Italia per combattere i briganti, usato a piene mani dal fascismo per perseguitare i dissidenti, ignorato dai repubblicani e riportato in auge dai moderni paladini della giustizia: è questa oggi l’Antimafia, un sistema dove l’eccezione diventa regola e l’emergenza permanente è l’altare sul quale sacrificare la libertà nel nome della lotta al crimine”. Il tour di presentazioni – dopo Milano, Roma e Napoli – porta l’autore e il libro ad approdare oggi a Lecce e nel Salento, i luoghi di Barbano, con tre eventi in due giorni.

L’inganno, allora. Lo si può leggere dall’inizio o dalla fine, il libro, dedicato in esergo alla memoria di Leonardo Sciascia, omaggio all’intellettuale e allo scrittore, al fine polemista, autore dell’intemerata epocale contro i “professionisti dell’antimafia” («strumento di un potere incontrastato e incontrastabile», un caso lungo 36 anni). Gli estremi qui si toccano e si tengono. E già il titolo del primo capitolo mette le cose in chiaro di fronte ai sospetti di chi guarda di sbieco operazioni a elevata tensione: “Chi critica l’Antimafia non fa il gioco dei mafiosi”. Nel mirino, in realtà, c’è la Giustizia (maiuscolo dell’autore), un potere arbitrario – spiega il testo – radicato nel cuore della democrazia, che ha imposto un diritto spiccio, dismette le prove per il sospetto, confisca aziende e beni senza un giudicato, commina squalifiche e interdizioni civili. Il «diritto dei cattivi», appunto. Un calderone di misure straordinarie in cui dentro finisce tutto, con un’estensione extralarge del codice antimafia anche ad altre ipotesi di reato, la corruzione su tutte. Sequestri, confische, interdittive: gli argomenti si dipanano tra storie ed esempi, una carrellata di vicende alimentata da fattispecie giuridiche costruite ai limiti del diritto, come il concorso esterno in associazione mafiosa e l’ergastolo ostativo, la morte civile che nega umanità al carcere e ne esclude qualsiasi finalità rieducativa che non transiti dal pentimento o dalla collaborazione. Un sistema, scrive Barbano, fatto di leggi speciali. “Di prefetti, amministratori giudiziari e associazioni di volontariato, la cui funzione o il cui profitto dipendono, a vario titolo, dalla crescita continua del sistema stesso”. La guerra tra Antimafia e mafia diventa, lungo questa china, “una guerra di puro potere nella quale le persone scompaiono del tutto”.

L’inganno è così nel ribaltamento del principio costituzionale di innocenza: oggi è presunto colpevole chiunque non sia riuscito a provare, contro il sospetto, la propria estraneità ai fatti contestati, spiega l’autore. È nel giudizio di prevenzione che porta a sequestri e confische in cui la prova non deve essere sorretta dai caratteri di gravità, precisione e concordanza. È nella possibilità di essere assolti da un’accusa grave da un Tribunale ma di essere spogliati di tutti i beni da un altro. “La macchina del sospetto è anche una forma di giustizia sostitutiva, che si propone di surrogare i ritardi e i limiti di quella ordinaria. Una spietata macchina dell’ingiustizia per la quale sfuma, in nome del risultato da conseguire, lo stesso confine tra l’errore e il dolo”. Un episodio su tutti: “Io devo andare perché voi siate liberi”, lo scrive un imprenditore ai figli prima di spararsi un colpo di pistola alla tempia.

Aveva denunciato il racket delle estorsioni; fatto arrestare e condannare i mafiosi suoi aguzzini. Poi a suo carico era scattata l’interdittiva antimafia per la “supina condiscendenza” – questa la motivazione – di fronte al clan. Verrà riabilitato solo dopo il suicidio. Non è l’unica storia raccontata. Sono tante, troppe. Ma non è sempre così, va aggiunto. Anzi. Tuttavia qualcosa, è evidente, non funziona. A dire il vero, più di qualcosa.

Un inganno, quindi, che si cominci dall’inizio o dalla fine in una ricostruzione che toglie il fiato. “Mi chiedo se questo sistema fosse indispensabile per sconfiggere la mafia. Se e in che misura ha adempiuto al suo compito”. Se e quanti, ma una prima risposta è già nel libro, hanno distorto il senso e lo scopo di norme e procedure in sé condivisibili: tutte derivazione diretta di una stagione di sangue e orrore, a cominciare dal 416-bis, varato solo dopo l’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (1982), per finire al carcere duro, il 41-bis, inasprito dopo le stragi costate la vita ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e agli uomini delle loro scorte (1992). Tappe della nostra storia, decisive nella partita fondamentale per la tenuta dell’assetto democratico di un paese che a lungo ha combattuto – e ancora combatte – il rischio di una deriva per la pervasività e la violenza di associazioni criminali capaci (appunto) di risalire l’Italia, insediarsi al Nord e permeare anche alcune aree dell’Europa. “Non c’è nessuna dimostrazione che per combattere il crimine la democrazia debba rinunciare ai suoi principi e alle sue libertà. Se ciò accade, non è perché il crimine è troppo forte, ma perché la democrazia è debole e immatura”. Il punto focale. A ben vedere, il vero snodo di tutto il ragionamento.

Per il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, “il furore inquisitorio di Barbano non risparmia nessun istituto della legislazione antimafia e nessuna delle istituzioni chiamate ad applicarla, investendo indiscriminatamente ogni aspetto del nostro sistema di contrasto della criminalità mafiosa” (giustiziainsieme.it). E diversi passi sorreggono la tesi: “Lo slittamento della coscienza verso l’onnipotenza non è frutto di una o più mele marce, ma è consustanziale alla logica dell’Antimafia” (p.63 del libro). “L’adesione della politica al progetto che l’Antimafia incarna oggi è sostanzialmente figlia della paura” (p.115). Ma restano i fatti raccontati, le circostanze descritte, le vite stravolte. “Quando i mezzi sono palesemente illiberali, la democrazia ne esce palesemente sconfitta”, scrive il professor Massimo Adinolfi sul Mattino nella recensione al libro di Barbano. “Non sembra proprio che, a forza di leggi speciali e di provvedimenti eccezionali, si sia estirpato il cancro mafioso – aggiunge –. E quand’anche fosse vero, bisognerebbe dire di no e preferire la civiltà giuridica alla barbarie”. Oggi “L’inganno” arriva a Lecce. Si chiude così la settimana che passerà alla storia per la cattura, dopo trent’anni di latitanza, a Palermo, di Matteo Messina Denaro. “Ha vinto l’Antimafia dei fatti, ha perso l’antimafia delle chiacchiere”, il commento al blitz del direttore del Foglio Claudio Cerasa. L’una con la A maiuscola, l’altra con la a minuscola. Antimafia fratto due. Non sono tutte uguali.

L’inganno, ecco allora: come può finire? “La stagione dell’eccezione deve chiudersi – conclude l’autore –. La delega della politica all’Antimafia offende il diritto alla civiltà. Di quei rimedi autoritari e illiberali potremmo fare a meno senza indebolire la nostra lotta per la legalità”. Ci vuole coraggio, però. E non poco. A Barbano non sfugge. Perché qualche dubbio (sesto motivo per leggere il libro, e magari rileggerlo, come suggerisce Adinolfi), qualche dubbio resta, al netto di errori, eccessi e abusi. Quanto coraggio, se la criminalità è forte e la democrazia è debole o immatura? Quanto, se gli anticorpi sociali, culturali e democratici non soccorrono adeguatamente? Quanto, se la corruzione – certo non marginale – diventa modalità operativa anche dell’associazione malavitosa, che sempre meno minaccia e sempre più compra? Quanto, se il lavoro degrada nel precariato? Quanto, se la scuola è sempre più stretta all’angolo e, al Sud, la lettura – e perciò la cultura – è merce rara? Quanto? Interrogativi, perplessità, quesiti. Omaggio finale (settimo motivo) al libro di esordio di Barbano, 1998: “Professionisti del dubbio”, il titolo.
 

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