Stefano e Alessandro Leogrande, la speranza al di là del mare

Stefano e Alessandro Leogrande
Stefano e Alessandro Leogrande
di Rosario TORNESELLO
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Lunedì 18 Marzo 2019, 19:09 - Ultimo aggiornamento: 19:10
Adagiato a quaranta metri di profondità, al largo dell’isola di Lampedusa, il peschereccio sembra in secca, incuneato nella sabbia chiarissima del fondale. I tre sub, le bombole sulle spalle, calcano il ponte della piccola imbarcazione ed entrano da una porta laterale. Passa qualche secondo, ed estraggono il corpo di una donna. Assomiglia a una bambola gonfiabile per la lievità con cui, sul fondo del Mediterraneo, scivola tra le loro mani. La donna è di spalle, il corpo è fasciato da pantaloni scuri e una maglietta. All’estremità spuntano le braccia e i piedi neri. I capelli lunghi e crespi sono raccolti in una coda. La donna viene spostata e adagiata pochi metri più in là, in un angolo del ponte. Poi entrano nella cabina accanto. Sui letti ci sono due corpi.

Alessandro Leogrande è morto poco più di un anno fa, nella notte tra il 26 e il 27 novembre 2017, a Roma, a casa. Aveva compiuto 40 anni da poco. Era appena rientrato da Campi Salentina. Nonostante la febbre, non aveva voluto saltare l’appuntamento con la Città del Libro in quell’edizione diretta da Alessandro Valenti e così su misura per lui, “Nel nome di Abramo”, un’immagine eloquente come logo, simbolo, richiamo: due volti immersi nell’acqua, uno bianco, l’altro nero, e le pagine di un volume squadernato a far da ponte tra le figure. “Questa sera io e Massimo Bray discutiamo con Tahar Ben Jelloun delle fratture che attraversano il Mediterraneo e di come ricomporle”, il suo annuncio su Twitter. Non poteva mancare; la febbre è fattore trascurabile quando l’urgenza è nel valore della testimonianza, della presenza. Abramo, il profeta carismatico, “padre di molti popoli”, riferimento culturale per ebrei, cristiani e musulmani, le tre religioni del libro, appunto, e il Mediterraneo come sponda comune. No, proprio non poteva. Poi un salto dai suoi, a Taranto, la città dei due mari e dalle molteplici fratture, dove la festa per Santa Cecilia aveva azionato il conto alla rovescia verso Natale, la processione, i suoni della banda, l’odore di fritto. Ci tornava sempre nelle pause di lavoro, dopo tutto quell’affaccendarsi tra libri, inchieste, reportage. Infine il rientro nella capitale. I suoi ultimi istanti di vita. Gli ultimi battiti del cuore, generoso ma molto affaticato.

Stefano Leogrande è morto un anno fa, il 20 marzo, equinozio di primavera. Era quasi mezzogiorno, aveva 68 anni. Il primo aprile sarebbe stata Pasqua. Fu ancora dolore, invece. Da qualche tempo era in pensione - ma non a riposo - dopo il tempo lungo della trincea, insegnante di Matematica per quarant’anni, fiduciario e vicario per quindici in un istituto di periferia, la media Ungaretti, al Paolo VI, quartiere difficile e problematico, la scuola come presidio di cultura, legalità, incontro. E lui, lì, anima e motore. Si educa col cuore, diceva. Dal primo settembre 2014 non insegnava più: raggiunti limiti di età, la burocrazia fa solo rima con poesia. Per fortuna le vite degli uomini sono impresse nelle opere. I vandali avrebbero poi devastato quei luoghi; i ragazzi sarebbero stati trasferiti altrove, accorpati alla Falcone, e con loro il presidente Mattarella avrebbe inaugurato, nel settembre 2017, l’anno scolastico accanto a chi si impegna e non si arrende. Anche Stefano lottava per un’altra battaglia, tutta sua, dopo una vita spesa per gli ultimi, i poveri, i migranti: promotore del volontariato vincenziano, a lungo direttore della Caritas diocesana, per nove anni ogni estate in Albania con i campi lavoro e infine fondatore dell’Osa, Osservatorio studi ambientali, nell’acronimo una sollecitazione, un incitamento, un urlo. La sua battaglia. Un primo intervento per una formazione benigna al cervello, poi il tumore ai polmoni. Devastante. Ma a ucciderlo fu la morte del figlio primogenito. “Alessandro, per me, era bellissimo – aveva scritto di getto quel giorno agli amici, dando loro la ferale notizia –. Era la Gioia, che entrando in casa ci coinvolgeva e travolgeva, roboante e trascinante; ma era anche il lavoro fatto bene, analitico e profondo, e la denuncia, fatta con lo stile dell’annuncio che, nonostante tutto, un mondo migliore è ancora possibile. Ho sempre percepito, orgogliosamente, che la Sua essenza fosse molto ma molto migliore della mia. Oggi questo padre si sente orfano. Sento pesantemente scendere le ombre nella mia vita”. E così accadde.

Non sono tanto le motivazioni individuali ad apparire incomprensibili. Chiunque parta lo fa per scappare da una situazione divenuta insopportabile, o per migliorare la propria vita, per dare un futuro dignitoso alla moglie o ai figli, o semplicemente perché attratto dalle luci della città, dal desiderio di cambiare aria. No, non è questo ad apparire incomprensibile. Ad apparirci spesso incomprensibili sono i frammenti di Storia, gli sconquassi sociali, le fratture globali che avvolgono le motivazioni individuali, fino a stritolarle. Incomprensibili perché provengono letteralmente “da un altro mondo”. La frontiera è un termometro. Chi accetta viaggi pericolosissimi in condizioni inumane, attraversando i confini che si frappongono lungo il suo sentiero, non lo fa perché votato al rischio o alla morte, ma perché scappa da condizioni ancora peggiori. O perché sulla sua pelle è stato edificato un mondo che gli appare inalterabile.

Stesso sguardo, identico sorriso. Uguale anche la barba. Davvero molto più che, semplicemente, padre e figlio. «Tutti e due erano la gioia. Con una differenza: Alessandro aveva un carattere più esuberante. Non si scoraggiava mai, proprio come Stefano. Ma negli ultimi tempi lavorava tantissimo, forse troppo; era molto stanco e stressato, sempre in giro per lavoro. L’autopsia ha riscontrato danni al ventricolo destro. Se n’è andato come il capitano della Fiorentina, Davide Astori: un’aritmia mortale e il cuore non ha più ripreso a battere». Maria Giannico, moglie e madre, somma in sé i due dolori. Insegnava Lettere nella scuola media Bettolo, nel centro di Taranto. Aveva conosciuto Stefano all’Istituto di Maria Immacolata, cuore della città, impegnati insieme nel gruppo vincenziano. Lei era figlia di un medico, famiglia originaria di Gioia del Colle; lui, tarantino, aveva il papà in Marina e il nonno imprenditore. Parla al telefono da Roma. È dal figlio più piccolo, Davide. Piccolo, poi: è fresco di laurea con lode in Architettura. La più grande, Letizia, nata dopo Alessandro, lavora come medico anestesista a Cuneo. Il terzo, invece, Orazio, vive a Buenos Aires, in Argentina, insegna e si occupa di cinema. «Mi manca molto parlare con loro, partecipare alle tante iniziative, seguire le attività, talvolta frenetiche. Alessandro ti riempiva la vita con i suoi racconti, i ricordi dei suoi viaggi. Tornava, parlava, assaggiava i nostri piatti, quelli della tradizione. Se c’erano i fratelli, meglio ancora. Stefano, invece, apriva la casa a tutti, e da ultimo al gruppo Osa. Era sempre molto affettuoso: per lui baciare le mani e dare del lei erano segni di rispetto e di attenzione verso tutti, a partire dai suoi colleghi. A loro resta il ricordo del suo carisma e della sua umanità. Insegnare era bellissimo, diceva sempre. Per questo amava il lavoro. Un esempio».

Il giorno in cui il dramma si è compiuto nessuno ha avuto il coraggio di dire subito ai genitori la verità. Loro credevano fosse grave, avevano temuto per il figlio una meningite a causa della febbre alta e con questo stato d’animo si erano messi in viaggio. «La tragica notizia ci accolse all’arrivo - racconta la madre -. La notte seguente, poi, Stefano scrisse quel messaggio agli amici». L’annuncio di morte. In poche parole, lo strazio e la fede: “Tutti noi, della famiglia Leogrande, vogliamo annunciarvi il prematuro ed improvviso ritorno alla Casa del Padre del nostro carissimo Alessandro. Dio ce l’ha, provvisoriamente ed immeritatamente, donato ed ora se l’è ripreso per conservarcelo, il giorno del nostro reincontro, nel Regno dei Cieli”. Erano legatissimi, loro due. Davvero tanto: «Molto cattolici e molto comunisti per questa vicinanza condivisa agli esclusi, agli emarginati, declinata come volontariato da mio marito e come incessante lavoro di scrittura da mio figlio. Dai 15 anni in poi Alessandro ha sempre seguito il padre nelle sue iniziative, soprattutto nei campi lavoro in Albania, dal 1993 al 2001: con la Caritas sistemavano scuole, aiutavano persone, esploravano villaggi. Ora non passa giorno che io non guardi le loro foto, non cerchi i loro sorrisi. Ogni mattina, al risveglio, è sempre lo stesso insopportabile peso, quando apri gli occhi e ti rendi conto che loro non ci sono più. Tuttavia si va avanti: i figli, i quattro nipotini... Ma è difficile. Terribile». Il Comune di Taranto ha dedicato alla memoria di Alessandro la passeggiata del lungomare. Mercoledì prossimo, 20 marzo, una messa nella Chiesa del Corpus Domini, al Paolo VI, ricorderà Stefano. Ora riposano a poca distanza l’uno dall’altro, nella stessa galleria del cimitero, la numero sei, piano terra. Un anno. E sembra un’eternità.

“Perché insisti a voler raccontare i naufragi?”. Forse perché i naufragi sono dei punti fermi, delle voragini, da cui provare a risalire, passo dopo passo, per ricostruire quelle mutazioni. Ma di questa risposta ero già meno sicuro. In realtà avrei voluto dirle: tutti questi morti, quella mattanza continua... e il silenzio che l’avvolge. Ecco, il silenzio. La vera risposta è il silenzio.






* I brani in corsivo sono tratti dal libro "La frontiera" (Feltrinelli, 2015)

 
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