Antonaci, ritorno al futuro nella città nuova

Antonaci, ritorno al futuro nella città nuova
di Alessandra LUPO
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Venerdì 15 Dicembre 2017, 20:19 - Ultimo aggiornamento: 20:27
C’è qualcosa di emozionante nel prendere in mano questo volume edito da Libria: un inventario di interventi di edilizia residenziale che racconta tra schizzi a matita, acquerelli e corrispondenza varia (riferiti al periodo 1953 -1966) il segno profondo che Orazio Antonaci impresse alla città di Lecce.
Da Santa Rosa alla chiesa di San Domenico Savio, dal complesso del Vito Fazzi alla sua opera per eccellenza, piazza Mazzini, di cui Antonaci ideò e costruì i cardini, a partire dal complesso edilizio lungo un intero isolato e attraversato dalla galleria commerciale a croce che divenne per Lecce il simbolo stesso della modernità.
E intorno, i primi stabili promiscui che la città avesse mai visto, con abitazioni ai piani alti e attività commerciali al pian terreno, che in poco tempo proiettarono Lecce fuori dal passato dando vita a quel cuore commerciale della città che ancora oggi, nonostante le contraddizioni, resta saldamente al suo posto.
Architetto, urbanista, designer, Antonaci è a ragione considerato un protagonista della nuova “città fuori le mura”, quell’ampio segmento allora informe che dando le spalle al centro storico guardava a Est, intuendo e tratteggiando quello che sarebbe diventata nei decenni successivi la città. Suo unico e solo “competitor” in quegli anni fu Beniamino Barletti, altro genio architettonico fondamentale per Lecce, di formazione e sensibilità differente ma della medesima audacia.
Il libro, curato da Ester Annunziata, Alfredo Foresta e Tiziana Panareo, fa parte di un’operazione culturale ambiziosa che porta la firma del “Centro studi a Sud Est”, start up nata nel 2005 e diventata un punto di riferimento per il territorio salentino: fissare nella memoria collettiva il lungo momento di svolta dell’urbanistica leccese, inserendolo nel contesto socioculturale del dopoguerra italiano.
Un aspetto su cui insiste nella sua introduzione anche Margherita Guccione, direttrice del Maxxi Architettura, che attraverso gli archivi della fondazione ha ben presente la costellazione di professionisti che seppero contribuire alla qualità architettonica e urbanistica delle città italiane anche lavorando nella periferia, scegliendo di tornare nei propri territori d’origine e riportando a casa la visione cosmopolita dei grandi maestri, uno tra tutti Gio Ponti con cui Antonaci si laureò al Politecnico di Milano.
Una scelta in grado di imprimere alla piccola e lontana Lecce uno sguardo «garbatamente proiettato oltre l’angustia della provincia - scrive il sindaco di Lecce Carlo Salvemini nel suo intervento contenuto nel libro -, diventato proprio della città e dei suoi cittadini».
Sfogliando le pagine del volume, che pure si concentra su pochi anni di una carriera lunghissima e di un sodalizio, quello con i costruttori Montinari, tra i più prolifici e avventurosi, si respira il candore ancora inviolato di quelle architetture. Nella zona 300mila, sulle tavole chiamata ancora “Petrachi”, si riconoscono le intenzioni degli edifici, rigorosi anche nei volumi più originali e nei dettagli ricercati: marmi, ferro battuto, maioliche. Una ricerca costante dell’eleganza senza cadute nel glamour. Architetture resistenti, insomma, anche ai tempi e alle loro domande più pressanti. Lecce si è già confrontata più volte con l’esigenza di ripensare l’area di piazza Mazzini, negli anni inseguita, raggiunta e superata dall’appeal di piazza Sant’Oronzo, che si specchia in un passato (quasi) senza tempo. Proprio la Galleria Alfredo Foresta, insieme a Cosimo Antonaci, figlio d’arte di Orazio, nel 2014 organizzò una mostra che raccoglie le architetture dell’area realizzate fino al ‘70 interrogandosi sul dialogo tra le due piazze, su cui peraltro lo stesso Antonaci aveva lavorato.
 
 

D’altronde, il progettista aveva dimostrato di essere più che versatile come architetto, capace di grandi slanci e di piccole accortezze ma soprattutto osando la qualità ovunque.
Doti che seppe coniugare con una vena artistica spiccata, anche grazie all’esperienza da docente all’istituto d’arte Pellegrino, mettendo insieme cantiere e ricerca, impresa e formazione: in tanti negli anni si formarono da lui.
Orazio Antonaci a quei tempi incarnava perfettamente l’ideale dell’architetto umanista: uomo di cultura e di cantiere, urbanista ma anche politico: fu un tessitore abilissimo nella fase di costituzione dell’ordine degli architetti di Lecce e Brindisi.
Quanto alle commesse, non era certo tipo da aspettare che cadessero dal cielo, preferendo partecipare attivamente ai processi di cambiamento. Gli appassionati come Alfredo Foresta raccontano di quando perse il concorso per il tribunale e di lì a poco sorse il palazzaccio firmato da Beniamino Barletti con un’architettura di cemento armato sino ad allora mai vista.
«Il libro fa parte di un disegno più ampio - spiega Foresta -. Il nostro obiettivo è la creazione di un archivio di architettura contemporanea che raccolga il tessuto dell’Italia minore che minore non è, come quella di Antonaci».
«Una città d’arte come Lecce - prosegue - non può non avere un archivio di architettura e arte, anche dove accogliere anche le collezioni private dei grandi artisti del ‘900 salentino, penso a Re, Leandro e tanti altri. Una pinacoteca permanente - insomma - in costante evoluzione».
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