Il vero, ultimo Carmelo Bene: oltre il mito del mito

Il vero, ultimo Carmelo Bene: oltre il mito del mito
di Franco UNGARO
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Domenica 3 Gennaio 2021, 09:09 - Ultimo aggiornamento: 14 Gennaio, 12:36

Ora che attorno all’eredità materiale e immateriale lasciata da Carmelo Bene si è spenta ogni diatriba giudiziaria, ora che son passati diciotto anni dalla sua morte, cosa si può ancora conoscere che non conosciamo? Dopo la pubblicazione con Bompiani delle “Opere. Con l’Autografia di un ritratto” del 1995 e della “Vita di Carmelo Bene” scritta insieme a Giancarlo Dotto uscita nel 1998, cosa si può raccontare della vita dell’attore e artista, sicuramente il più colto e geniale del Novecento, capace di segnare, sempre con grandi invenzioni e rivoluzioni di linguaggio e come nessuno aveva mai fatto prima di lui, la storia contemporanea del teatro, del cinema, della poesia, della letteratura, della musica e dell’arte? Come soprattutto continuare a raccontarla, la sua vita? E perché?

Sono sicuramente anche queste le domande che hanno inseguito Luisa Viglietti, che Bene designò come segretaria della fondazione L’immemoriale alla quale aveva affidato tramite testamento la gestione di parte del proprio patrimonio. Con lei aveva convissuto e lavorato per gli ultimi otto anni della sua vita. Ora nelle librerie arriva questa emozionante biografia scritta da Luisa Viglietti, “Cominciò che era finita. L’ultima vita di Carmelo Bene” pubblicata dalle Edizioni dell’asino con prefazione di Goffredo Fofi. Un lungo racconto che sembra scritto a quattro mani, perché tanti sono i respiri e le azioni condivise come pure conflitti e diffidenze reciproche, così come intensa è la sequenza di gesti e pensieri, sguardi e ricordi, in cui le tante vite dell’uno incrociano la vita dell’altra, in un difficile ma avvincente percorso di conciliazione tra affetto amore e lavoro.

«Provo a chiudere la porta - scrive Luisa Viglietti - fuori ci sono le beghe legali, tutte le persone, tutto il resto, dentro io e lui. Insieme…. Nei primi tempi eravamo due sconosciuti che si prendevano le misure. La mia vita cambiava. La cosa fondamentale era andare a dormire e svegliarsi come voleva lui: quando il sole era già alto si tappava tutta la luce che filtrava dalle finestre e si andava a dormire, fino alle due del pomeriggio. Io dovevo abituarmi ai suoi ritmi, seguire le sue esigenze. Missionaria, odalisca, geisha, prigioniera, finanche kamikaze, che si occupava degli altri al costo di trascurarsi ben bene. La sua persona era più che sufficiente per riempire lo spazio e il tempo». Il tentativo di Luisa Viglietti, sincero, onesto e generoso, è quello di far emergere «un’idea di chi lui fosse, lontano dal personaggio che suo malgrado si era creato» perché «eccessi e paradossi fuorvianti hanno creato il mito del mito, dell’eterno dissidente, dell’Uno contro tutti».

Come scrive Fofi nella prefazione al volume la Viglietti ci consegna un “Carmelo quotidiano, semplice e vicino ma pur sempre diverso e anzi unico”. “Cominciò che era finita” è lo spazio e il tempo appunto di una relazione e di singolari sfide quotidiane che dal primo incontro col Maestro sino al giorno della suamorte si snodano e si trasformano in diario quotidiano e sentimentale come anche in resa dei conti esistenziale cui entrambi vengono chiamati. Una relazione che si rafforza nella consapevolezza che lui “desiderava stagliarsi come una monade. Unico, indivisibile, irripetibile… Di sicuro era un grande attore, non aveva tempo per l’ordinario e allora di riflesso ripiegava sulle abitudini e le esistenze degli altri. Era una spugna e uno specchio, e chi ha avuto la fortuna di frequentarlo, ha avuto l’occasione di conoscersi meglio”. Lo spazio è quello delle due case, quella di Roma ma soprattutto quella di Otranto che la Viglietti ci fa scoprire come un teatro, un’alcova, un tempio, un castello con le enormi stanze bianche, le volte a croce, i tanti caminetti, i balconi affacciati sul mare, il pavimento di cotto, le porte in ciliegio con i pomelli di resina bordeaux, cinque bagni, sette camere da letto, rubinetteria in rame, la libreria in pietra leccese, le tende di lino bianco, i tessuti traforati in cotone avorio, le quindici specchiere giganti con cornice in foglia d’oro.

Il tempo è il tempo dello studio e della ricerca quotidiana, della maniacale preparazione degli spettacoli, della selezione di attrici che da ogni dove arrivavano a Otranto per avere una parte nei suoi spettacoli, che entravano in competizione fra di loro e che sistematicamente venivano sedotte e abbandonate, come nella stupenda parabola dell’ammiratrice di Verona che voleva essere attrice.

Ma anche il tempo dalla notte all’alba a seguire le trasmissioni televisive con i dibattiti politici e i talk show di Marzullo, Vespa e Gabriele La Porta per “studiare i buchi neri del linguaggio”, come lui diceva. E’ il tempo della comune autoreclusione in casa e della comune solitudine, lui immerso e ossessionato dal lavoro, in una relazione di empatia, di sacralità, dì amore e di competizione con i suoi autori, testi e personaggi (Shakespeare, Campana, Majakovski, Pinocchio, D’Annunzio). Solitudini interrotte, con Carmelo che non amava viaggiare, dalle avventurose tournèe in Italia e quelle con Pentesilea al Teatro Majakovski di Mosca e con Macbeth horror suite al Teatro Odeon di Parigi e all’Hebbel di Berlino, tutte e sempre accompagnate da entusiastici consensi oppure da cocenti delusioni. E ci sono gli affetti e l’intimità fra “Luisina” e “Topone” (i loro rispettivi soprannomi nell’intimità), l’amicizia e la fiducia riservata a pochi fedeli, il tempo dei Capodanno e delle cene con i tubettoni al ragù di carne o il brodetto di cernia, fasolari, gamberoni e aragoste e delle estati trascorse con Piero Giacchè, Bruna Filippi, Goffredo Fofi, Giancarlo Dotto, Jean Paul Manganaro, Nicola Savarese, Matteo Bavera con i quali riesce persino a farsi delle foto, lui che si faceva fotografare solo in scena. A Otranto c’è l’incontro con i fratelli Capasa e la mamma Maria Luisa quando, evento unico e raro, nel loro lido “in pantaloncini e canottiera si era sfilato le scarpe e gli eterni calzini affondando i piedi nudi nella sabbia calda”. C’è il tempo della tenerezza con i bambini, Carmelo “aveva paura dei loro occhi indagatori e delle domande senza veli”, lui che aveva perso il figlio Alessandro di sei anni e che probabilmente in ognuno di loro vedeva anticipato il destino tragico di Pinocchio. Tutto accade prima del tempo della perdita e del dolore, con l’infarto cardiaco nel 1995 e i quattro by-pass. Nel mezzo ci saranno tante ripartenze, l’ostinato e inatteso recupero di energia con gli spettacoli, i progetti e le apparizioni a Campi Salentina per l’omaggio riservatogli dal sindaco Egidio Zacheo e a Copertino per l’ultimo saluto devozionale a San Giuseppe.

Poi l’arrivo del nuovo secolo con l’ultimo atto della ultima estate del 2001 a Otranto, il singhiozzo continuo, i dolori addominali e l’inappetenza e poi l’inverno a Roma con il ricovero e la scoperta della massa tumorale. Al primario che voleva rassicurarlo, Carmelo rilanciò la battuta di Petrolini: “Ho capito. Il cancro non c’è, il cuore sta bene, il fegato sta bene, i reni stanno bene, sono io che sto morendo!”. La Viglietti era lì, tutte le notti a vegliarlo, passarono a trovarlo solo Giancarlo Dotto, Jean-Paul Manganaro e Piero Giacchè. Poi la notizia si diffuse e la casa si riempì di gente. “Sabato 16 marzo, una serata quasi estiva, respirava a fatica, ogni respiro era seguito da una pausa, fino a quando la pausa non fu più tale. Alle 21.10 se ne andò, uscì per sempre da quella bocca, come un sottile alito di vento sfumò nell’aria. Come l’amato Ivan Il’ic: “Tirò l’aria a sé, si fermò a metà del respiro, si distese e morì”. Non ci fu nessun funerale, da casa direttamente al forno crematorio. “E dopo se volete - aveva detto - con le mie ceneri fateci una torta”. Ora che è tempo di pandemia, “Cominciò che era già finita” ci conduce per mano dentro le fragilità, le inquietudini e le ossessioni di un grande artista del nostro tempo, un tempo così buio da farci desiderare come non mai quegli orizzonti di libertà e di diversità così amati da Carmelo Bene.

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