Chiara Gamberale: amore e abbandono sull’isola del Mito

Chiara Gamberale: amore e abbandono sull’isola del Mito
di Francesco DI BELLA
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Venerdì 22 Marzo 2019, 16:20
Ha radici antiche l’abbandono. Radici che affondano persino nella mitologia, là dove Teseo, dopo essere riuscito a uccidere il Minotauro e a uscire sano e salvo dal labirinto grazie al filo di Arianna, anziché riportare la ragazza con sé ad Atene l’abbandona sull’isola di Naxos, dando origine peraltro a uno dei modi di dire più usati da allora in poi fino ai giorni nostri: “piantare in asso” (ovvero in Naxos).
Quale luogo migliore di Naxos, quindi, per una storia che parla di amore e di abbandono? Infatti è proprio lì che la scrittrice Chiara Gamberale ha ambientato il suo ultimo romanzo intitolato, per l’appunto, “L’isola dell’abbandono” e pubblicato da Feltrinelli. Lì, su quell’isola, la protagonista ha incontrato il primo amore e da lui è stata abbandonata, lì ha imparato a conoscersi meglio grazie a un altro uomo e lì, dieci anni dopo e con un figlio, ritorna alla ricerca di una parte di sé ancora “sospesa”, di qualcosa che assolutamente sente di dover trovare per chiudere quei conti rimasti aperti per troppo tempo.
Ma per entrare meglio nello spirito del nuovo romanzo è necessario fare un passo indietro e riprendere in mano qualcun altro dei precedenti libri di Chiara Gamberale. Cominciando da “Per dieci minuti”, in cui l’autrice affrontava il tema del post-abbandono attraverso la tecnica dei 10 minuti ogni giorno da dedicare a qualcosa mai fatta prima, scoprendo il segreto del ricominciare. E il tema del ricominciare lo si trova anche in “Adesso”, lì dove i due protagonisti, sebbene feriti da precedenti esperienze, si abbandonano a una nuova storia d’amore. E abbandonandosi l’uno all’altro scoprono la propria “Zona cieca”, altro suo romanzo, cioè quella parte di noi che non siamo in grado di vedere se non attraverso qualcun altro capace di svelarcela.

C’è insomma un unico filo conduttore che lega le vicende tra loro, come diversi capitoli di un’unica storia che evolve. Ha tutto il sapore di un’autobiografia, o no? 

«In parte sì: io, ancora prima di pubblicare, da quando ero bambina, scrivo per capire meglio come vivere e vivo per capire meglio quello che ho imparato scrivendo… Vita e scrittura sono due dimensioni in perenne, profondo contatto. E posso dire letteralmente che scrivere me l’abbia salvata, la vita. Detto questo, credo che ogni scrittore che abbia l’urgenza di scrivere, e non solo di pubblicare, scriva un unico grande libro di cui ogni romanzo è un capitolo. Cambiano le storie, ma le sue ossessioni, i suoi temi fondamentali, sono quelli. Non mi fiderei di uno scrittore che scrive un giallo, poi un romanzo introspettivo, poi passa al romanzo storico e via così senza mantenere forte la sua voce. Che può piacere o non piacere: ma è quella».

“L’isola dell’abbandono” affronta il tema del ritorno in un luogo legato da un lato alla sofferenza, dall’altro all’amore. E il secondo, se vogliamo, nasce come conseguenza, come reazione al primo. Sembra quasi che debba necessariamente esserci un legame tra i due sentimenti. E’ per forza così in una coppia? 

«No, non credo… Conosco persone straordinarie che stanno insieme da sempre e riescono a crescere insieme, ad armonizzare i cambiamenti dell’uno con quelli dell’altro… Ma per la mia protagonista sicuramente il dolore dell’abbandono è un’occasione per entrare in un contatto più profondo con se stessa: e grazie a quel contatto ha, o avrebbe, la possibilità di incontrare un amore nuovo, molto diverso dal primo». 

Su quell’isola la protagonista ha sofferto, eppure non può resistere al bisogno di tornarvi…

«Perché ha lasciato lì un pezzo indispensabile della sua identità e deve recuperarlo per sentirsi intera. E’ un pezzo che sicuramente ha a che fare con lo strazio di venire abbandonati, ma anche con il terrore che abbiamo di abbandonarci quando finalmente qualcosa di vitale e di nuovo ci chiama. Però, come dice Pasolini, “soffre tutto quello che cambia, anche per farsi migliore”».

L’Isola dell’abbandono ci porta a Naxos e al mito di Arianna e Teseo al quale lei assegna un ruolo importante, fondamentale nel romanzo. Perché?

«Il mito non è mai esplicitato dai miei personaggi, ma è come se, alle loro spalle, li minacciasse e li proteggesse… Sembra dire: quando qualcuno che ci è caro muore, quando un figlio nasce o quando ci innamoriamo ci sembra di essere i primi o gli ultimi a cui succeda. E invece è successo a tutti, milioni di anni fa, succede ogni giorno, sempre succederà. Personalmente, è un pensiero che mi dà coraggio. Ho l’impressione di non essere la sola almeno a sentirmi così sola, di fronte alla vita che irrompe».

A volerlo cercare, l’amore è uno dei protagonisti del romanzo in diverse sue declinazioni. L’amore per il figlio, innanzitutto, ma anche l’amore per il compagno che però è un amore tormentato, difficile. E tra le righe, poi, c’è l’amore per se stessi, anche se talvolta sembra essere messo in discussione o quanto meno un po’ in ombra…

«E’ così. E amore significa contatto: con un figlio, con il nostro compagno. Con noi stessi. Un monito portante del romanzo, anche se non compare mai, è il famoso “conosci te stesso”. Più i miei personaggi si ingannano, più ingannano gli altri. Più si conoscono, meno male sono in grado di fare».

Nonostante la sofferenza legata al rapporto con Stefano, però, nella protagonista il sentimento per quel primo amore sembra non poter essere cancellato. Cos’è che lo rende così forte a dispetto di tradimenti e cattiverie subite?

«Il fatto che Stefano, con le sue fragilità, ha messo le mani esattamente nelle fragilità della mia protagonista. Sono relazioni pericolose, quelle come la loro, ma molto profonde, perché è chiamata in gioco la nostra parte più bambina, più spellata, quella che con più facilità qualcuno può manipolare».

Diverso il rapporto con Di, che riesce a mettere in luce un nuovo aspetto della protagonista. E qui si torna a quella “zona cieca” di cui si diceva. Ma è un amore differente quello che lo rende possibile? Differente in che modo?

«L’amore con Di è un amore che, invece, punta sui punti di forza della mia protagonista. Di li riconosce, se ne innamora… Ma la mia protagonista non è ancora pronta lì per lì per autorizzarli a se stessa. Dopo dieci anni, però…».

C’è poi il rapporto con i figli e soprattutto l’aspetto dei genitori che li allevano da soli, per i quali lei crea addirittura un’associazione. Eppure si avverte nel romanzo, nella sua protagonista, un forte desiderio di “famiglia”… 

«Famiglia è dove famiglia si fa: è il mio credo da sempre. La mia protagonista ha un bisogno assoluto di famiglia, è vero, ma non al punto di barattare il suo bisogno con l’ipocrisia che le costerebbe rimanere in una situazione che non avverte chiara. E comunque lei ed Emanuele, il figlio, sono una famiglia».

Chiudiamo con una delle sue “passioni”: il disegno. La protagonista del romanzo è una disegnatrice di storie per bambini e Chiara Gamberale collabora con la fumettista Silvia Ziche, autrice Disney e non solo. Che tipo di legame, anche psicologico, c’è tra lei e il disegno? 

«Adoro chi esprime quello che ha dentro in modi che a me sembrano divini, tanto sarei incapace a usarli… Per dire, potrei rimanere ore a guardare le gare di pattinaggio artistico. E così come non so pattinare, non so tenere una matita in mano: è un grande onore per me che Silvia Ziche abbia accettato di disegnare due tavole per questo mio romanzo e che così abbia dato forma alle fantasie della mia protagonista».
 
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