Comi: l’audacia del poeta “alieno”

Girolamo Comi
Girolamo Comi
di Claudia PRESICCE
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Giovedì 29 Marzo 2018, 20:17 - Ultimo aggiornamento: 20:24

“La gioventù di noi in noi permane/al di là d’ogni mito e d’ogni effigie/se la marea del tempo celestiale/nell’organicità del sole vige/oltre lo sgretolio d’ogni carname...”. Sono versi tratti dal “Cantico del tempo e del seme” di Girolamo Comi, una visione potente e contemporanea che arriva dalla fine degli anni Venti.
A 50anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 3 aprile del 1968, riparlare del poeta barone di Lucugnano serve un po’ a rimettere le carte a posto di un destino che doveva conoscere un’altra storia. Se un poeta come Comi che ha speso metà della sua esistenza negli ambienti letterari nazionali e d’oltralpe, tra i poeti simbolisti francesi prima e poi nella Roma della prima metà del ‘900 (il rientro nel Salento in cui era nato avviene solo nel 1946), e che ha uno stile poetico originale e apprezzato da grandi intellettuali del suo tempo, non è ricordato nelle antologie è solo per una sorte sfortunata. Escluso per un capriccio dall’antologia “Lirica del ‘900” del ’53, in pratica venne destinato ad uscire di scena. La sua storia semisconosciuta, come quella di altri poeti salentini, rimasti ancorati ingiustamente al territorio di nascita pur essendo volati via da qui già al loro tempo con versi di respiro europeo, merita di essere raccontata. Ma soprattutto la produzione poetica di Comi ormai pressoché introvabile potrebbe da sola parlare di lui e di una stagione straordinaria dimenticata. Il prossimo 3 aprile verrà ricordato a 50 anni dalla scomparsa con una festa di comunità nel paese della famiglia Comi, Lucugnano.
Ma cominciamo dall’inizio.
«Girolamo Comi è stato un poeta complesso, un letterato nutrito del pensiero filosofico, religioso e misteriosofico, quindi difficile e fuori dal cosiddetto Canone novecentesco, ma non per questo i suoi lavori sono meno interessanti, anzi – spiega Antonio Lucio Giannone, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università del Salento – purtroppo la sua poesia è poco conosciuta, come anche la sua storia».
E spieghiamo: intanto chi è Comi?
«Girolamo Comi nasce a Casamassella nel 1890, studia al Capece di Maglie poi al Palmieri di Lecce, ma nel 1908 la madre rimasta vedova lo manda in collegio a Losanna: qui comincia a studiare i poeti simbolisti francesi. Poi frequenta i grandi letterati del tempo, che stavano rinnovando la letteratura europea, quando nel 1912 si trasferisce a Parigi, da Paul Valéry a Paul Claudel, Émile Verhaeren, Remy de Gourmont».
Un ambiente allora sconosciuto in Italia.
«Del tutto, noi in quegli anni eravamo fermi al carduccianesimo e al positivismo. E in italiano vennero tradotti anni dopo, anche dal “nostro” Vittorio Pagano».
Questa formazione però influirà su Comi.
«Sarà lo stigma fondante della sua produzione, e spiega anche la sua eccentricità rispetto al panorama letterario italiano. La sua poetica infatti non rientra in nessuna corrente letteraria del ‘900, e sarà considerato come un alieno, difficile da catalogare anche per i critici. Nel 1912 intanto aveva pubblicato già il suo primo libro di poesie a Losanna “Il Lampadario” con un editore svizzero».
Poi dal ’20 lo ritroviamo a Roma. È qui che entrerà in contatto con gli ambienti esoterici?
«Diventa amico di Arturo Onofri, un grande poeta poco conosciuto del ‘900 italiano, poi del letterato Nicola Moscardelli e con loro fonda la casa editrice “Al tempo della fortuna” con la quale pubblica molti volumi. E poi conosce un personaggio discusso della cultura italiana come Julius Evola, spesso accostato al fascismo e al nazismo, ma anche all’esoterismo, e collaborerà con tante “rivistine” esoteriche. Nel 1929 pubblica la raccolta “Poesia” che comprende la sua produzione dal ’18 al ’28, e nel 1939 un’altra edizione di “Poesia” comprenderà le sue poesie dal ’18 al ’38: in pratica catalogherà i suoi ultimi vent’anni di poesia creando un’antologia con le raccolte che man mano aveva pubblicato. Dopo la guerra nel ’46 si trasferisce a Lucugnano nel palazzo di famiglia, torna nel Salento definitivamente, e comincia qui una ricca attività non solo per la sua produzione, ma anche come operatore culturale. Promuove infatti iniziative importanti collocabili a livello nazionale come la fondazione dell’Accademia Salentina nel 1948 con personaggi come Oreste Macrì, Maria Corti, Luciano Anceschi, Enrico Falqui, Mario Marti e tanti altri che durò fino al ’54. E fonda la rivista “L’Albero”, dal ’49 al ’66, alla quale collaborano letterati italiani di primo piano con cui Comi è in contatto e avrà un’impronta fondamentale nel panorama letterario italiano. “L’Albero” diventa poi una casa editrice che pubblica volumi di letteratura e riviste importanti, eppure oggi si rischia di far ricadere nel localismo nostri poeti che, come lui, in vita fecero parte di una dimensione europea. Le sue ultime opere sono del ’54 la raccolta “Spirito d’armonia”, “Canto per Eva” del ’58, del ’67 “Fra lacrime e preghiere”. Comi muore però povero perché privo di attitudini imprenditoriali: il palazzo di famiglia lo cede alla Provincia in cambio di un vitalizio, nel ’65 sposa in seconde nozze la governante Tina Lambrini che lo aveva accudito negli ultimi anni della sua vita, e nel ’68, il 3 aprile, muore a Lucugnano».
La sua esperienza umana, iniziata con i simbolisti e passata per l’esoterismo, quanto “entra” nella sua poetica?
«La sua concezione panica della poesia parte da lì, una comunione dell’io nel tutto: il suo senso panico dell’universo acquisisce un’accezione particolare con la conoscenza delle dottrine esoteriche soprattutto quelle di Steiner. Comi attribuisce alla parola una particolare funzione: rifiuta il soggettivismo lirico, e quindi la poesia dell’io dei poeti in voga in Italia come Montale e Ungaretti. La funzione della poesia per Comi è di salvezza e redenzione del mondo intero: non deve esprimere i sentimenti personali, né l’io del poeta, non la sua interiorità, ma quella oggettiva e cosmica. Questo rende la sua poesia complessa, e ha impedito una conoscenza più diffusa di questo autore».
Invece è nuova, perché ancora adesso il soggettivismo è imperante nella poesia.
«Purtroppo sì, anche nel senso più banale. Lui, rifacendosi a Steiner, pensava che la poesia dovesse redimere il mondo riconducendolo all’assoluto e al divino. Il compito dell’arte è ricondurre il mondo fisico a quello spirituale, e la poesia deve farlo attraverso la “parola verbo”».
Una specie di difficile rivoluzione la sua.
«Lo è, ed è uno dei motivi dell’esclusione dal cosiddetto Canone novecentesco. Curiosamente però la storia della sua fortuna critica ha anche una data precisa: il critico letterario Luciano Anceschi, con Sergio Antonielli, pubblicò nel 1953 l’antologia dei poeti della prima metà del ‘900 che segnò il canone del tempo e divenne un riferimento, un parametro cui attinsero tutti in seguito. Nonostante fosse suo amico come testimoniano tante lettere, e nonostante Anceschi facesse parte dell’Accademia Salentina e lo stimasse molto, escluse Comi, dicendo che Antonielli aveva un’idea diversa di poesia. Se lo avessero inserito sarebbe cambiata la sua storia. Oggi sono introvabili sia libri su Comi, ma soprattutto, il che è più grave, non si trovano le sue poesie. Ma lui è la sua opera, quindi sarebbe necessario stampare una raccolta antologica delle poesie».
 

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