Gli ultimi custodi del tempo. Così la memoria diventa coraggio

Nicola Santoro oggi, con le onorificenze ricevute. Accanto, il documento di identità di quando era militare italiano internato nei campi di lavoro nazisti
Nicola Santoro oggi, con le onorificenze ricevute. Accanto, il documento di identità di quando era militare italiano internato nei campi di lavoro nazisti
di Rosario TORNESELLO
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Domenica 28 Gennaio 2018, 20:13 - Ultimo aggiornamento: 20:20
C'è un tempo per raccontare. E un tempo infinito per ricordare. Un tempo passato da rievocare e un altro, futuro, sognato, da costruire. Giorni perduti da riconquistare e quelli maledetti da non dimenticare, non dimenticare, non dimenticare mai. Un tempo trascorso piegati, derisi, impossibile da cancellare. E un altro speso a ricucire le ferite, a riannodare i brandelli di vita, a rimettere in piedi la storia di sé nella storia del mondo. Un tempo ribelle, di frastuono assordante. E quello mesto e dolente dei corpi svaniti, lacerato dal lutto, scavato dal dolore, solcato dalle lacrime. L’era bastarda dei tiranni feroci. E quella pietosa e clemente, dell’umanità che riparte dal suo stesso essere niente. C’è un tempo vissuto da tramandare. Il tempo giusto per imparare ad amare.

La memoria è esercizio collettivo. Questo il giorno per celebrarla. Il resto dell’anno servirà ad onorarla (chi vuole, chi può; chi sa e capisce, mica come quelli sempre in orbace, aggrappati a un altro passato). Gli antichi maestri sono una razza in via di estinzione, l’unica riconosciuta, la sola che valga la pena difendere. Nicola Santoro si prepara a festeggiare i 94 anni. Lo farà il 22 febbraio. Gira in lungo e in largo. Ora fa tappa a Casarano, Istituto comprensivo Primo Polo. I ragazzini si siedono. Le insegnanti hanno preparato l’incontro con cura, un libro tra le mani: “159534”, la sua matricola da prigioniero di guerra, militare italiano internato nei campi nazisti, a Treuenbrietzen, Germania nord-orientale. Il silenzio, in auditorium. Le luci spente, per un video e anche dopo. Le parole su tutto; l’attenzione mista a curiosità. Tra lui e loro, i ragazzi, passa un’eternità. La storia vissuta e quella raccontata. Quella fatta e quella da consegnare. Microfono, si comincia. Il tempo passato marca il tempo che verrà.

Aveva 19 anni quando fu arruolato, secondo di sette figli. Da Cursi a Udine, marconista presso il Genio militare. Giugno 1943. L’armistizio firmato a Cassibile il 3 settembre successivo, annunciato dal generale Eisenhower l’8, sorprenderà lui e i suoi commilitoni al lavoro in caserma, su in Friuli. «I tedeschi ci circondarono: “Deponete le armi”. Pensavamo fosse finita la guerra, ridevamo. Ma i più anziani tra noi piangevano. Non era finita, il peggio stava per cominciare. Ci caricarono su un carro merci. “Andiamo a Bolzano, poi da lì a Verona per il congedo illimitato”. Un giro folle, era falso. Intuii quello che stava per accadere. Infatti ci ammassarono in settanta, tutti in piedi, cinque giorni e quattro notti di viaggio, senza mangiare né bere, dissetati solo dalla pioggia, l’unica volta che pure il cielo si era mosso a pietà. Andavamo in Germania. All’arrivo fummo insultati e umiliati. “Traditori”, ci gridavano. A Treuenbrietzen ci sputarono addosso, ci lanciarono delle pietre». La destinazione era in una fabbrica. Armamenti. Munizioni. La santabarbara del führer. Il tempo della follia.

«Da mangiare solo brodaglia. Turni di lavoro massacranti. Dodici ore di fila. E lo spauracchio di ammalarsi gravemente, di scendere sotto i 45 chili di peso. In un caso o nell’altro, destino segnato. Bisognava tenere duro per non morire. E ricorrere a qualche escamotage, come mettere dei sassi in tasca per aumentare di peso». Nicola Santoro non molla il microfono. L’amplificazione fa le bizze, i suoi apparecchi acustici gli rimandano l’esplosione di tuoni, echi di rombi lontani, forse più dolorosi. La smorfia riporta sul volto le sembianze della tragedia. I ragazzi, muti, ascoltano. Hanno dodici o tredici anni. Dietro, qualche genitore. C’è voglia di sapere. La sofferenza, quella si trasmette per empatia. «Una volta riuscii ad eludere la vigilanza: con un gancio fatto da me arpionai da una finestrella della cucina alcune patate. Crude, gelate. La temperatura era di molto sotto lo zero. A cuocerle ci pensava la pancia. Alcuni russi e polacchi, anche loro internati, furono sorpresi a rovistare nelle dispense: fucilati all’istante».

I ricordi scorrono fluidi. Balsamo per il giorno della Memoria. Il racconto si sovrappone ad altre storie vissute, patite, custodite per essere tramandate. Narrate sempre con identica emozione; gli stessi occhi lucidi. Il dolore, la disperazione. E alla fine la liberazione. «Il 21 aprile 1945 l’Armata Rossa conquistò la cittadina a poca distanza da noi: Belzig. A Jalta i grandi avevano deciso di entrare tutti assieme a Berlino, ma i russi, su indicazione di Stalin, volevano arrivare per primi nel bunker di Hitler. Quella cittadina era strategica per la missione. Il giorno dopo occuparono Treuenbrietzen. Non era ancora finita. I tedeschi con un ultimo colpo di coda misero a segno una terribile rappresaglia: in un campo di lavoro poco distante dal nostro le SS trucidarono 127 soldati italiani. Una ritorsione ricordata solo da pochi anni. Quanto a noi, fu il caso o forse il buon Dio a salvarci».

Poi è tempo vissuto a rotta di collo. Segnato dagli episodi: come il carretto e i due cavalli presi in una masseria per i primi spostamenti in gruppo o i biscotti americani quasi “estorti” a un prete («Eravamo stremati e affamati, entrammo in chiesa, il sacerdote disse di non avere nulla e io mi infuriai: non è possibile, qualcosa da parte dovrà pur averla. E infatti tirò fuori una scatola di biscotti da 15 chili. La divorammo in pochi minuti»). Poi l’arrivo in Italia: «Una gioia indescrivibile, anche se tutt’intorno era uno squallore: tedeschi e americani avevano fatto terra bruciata». Infine il ritorno a casa: «Sul treno mi fecero storie per il biglietto. Quando ero partito per il servizio militare, alla cartolina di precetto era accluso il ticket ferroviario. Al ritorno ovviamente no. Così ai carabinieri e al bigliettaio glielo dissi chiaro e tondo, in dialetto: “Quistu ete lu trenu te lu duce, siccome m’ha purtatu mo’ me ‘nduce!”». Il 10 luglio 1945 l’arrivo a Cursi. La festa patronale in onore della Madonna dell’Abbondanza era stata prolungata di un giorno per la fine della guerra. Nicolino trovò la banda in piazza. Aveva perso trenta chili. Nessuno lo riconobbe. I suoi erano ancora a letto. Nel giro di mezz’ora la casa fu invasa da centinaia di persone. Tutti volevano avere notizie dei loro parenti.

Il passaggio di testimone è avvenuto: la storia raccontata si fa storia tramandata. I ragazzi applaudono. Chiedono. Vogliono sapere. Lui starebbe ore a parlare. Spiega che la paura diventa coraggio quando l’obiettivo è tornare a casa dopo le follie e i massacri della guerra. E che non c’è altro sentimento, nulla in quel baratro di follia, che valga più della voglia di riabbracciare i propri cari. La forza è tutta lì. Non c’è altro segreto. Sposerà Pietrina Palma. Avrà due figli, Adriano ed Edoardo (che nel 2010 da sindaco di Cursi lo accompagnerà a Roma per ricevere al Quirinale la Medaglia d’onore). Lavorerà per le Poste fino a diventare direttore di ufficio. Sarà consigliere comunale per vent’anni, dal ‘55 al ‘75, sempre per la Democrazia Cristiana. E ora è memoria vivente. «Non potrò dimenticare la storia di un ragazzino di 14 anni, prigioniero a Dachau. Ottenne la libertà dopo aver lanciato in aria dei bambini per l’orrido divertimento imposto dai nazisti: colpirli al volo con pistole e fucili. Avrà figli e nipoti, e mai li prenderà tra le braccia. In punto di morte, a 84 anni, confesserà alla moglie il terribile segreto». Il silenzio incastona l’attimo. Lo sgomento degli alunni è quello dei grandi. «Odiate i dittatori», dice Nicolino. La voce forte. Gli occhi lucidi. Non aggiunge altro. Stavolta si ferma. In prima fila una ragazzina con una ciocca di capelli verdi piange a dirotto. C’è sempre un tempo per raccontare. E un tempo infinito per non dimenticare.


 
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