"La luna e i falò", viaggio nella memoria e nell'orrore della miseria

"La luna e i falò", viaggio nella memoria e nell'orrore della miseria
di Adele ERRICO
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Domenica 14 Ottobre 2018, 21:11 - Ultimo aggiornamento: 21:32
Romanzo del riconoscimento e dello svelamento, della ricerca e della memoria, “La luna e i falò” è l’ultimo capolavoro di Cesare Pavese. Scritto tra il settembre e il novembre del 1949, un anno prima della morte, è il romanzo che, come egli stesso disse, si portava “dentro da più tempo”, il romanzo delle radici, del confronto a viso aperto con il luogo in cui una volta si nasce e una volta si muore. Il protagonista, soprannominato Anguilla, orfano e bastardo senza nome, torna al paese alla fine della guerra dopo numerosi anni trascorsi in America, l’”anti-paese”, il simbolo dello sradicamento e della sconsacrazione, dove tutti sono anonimi, tutti sono “bastardi”. Come luogo delle radici Pavese sceglie il Belbo, nella regione delle Langhe piemontesi, perché è luogo che gli scorre nelle vene.

Ad un certo punto accade che ci si allontani. Ma la distanza non cancella l’appartenenza. Lasciare un paese e poi ritornarvi significa fare esperienza del legame indissolubile tra la propria provincia e l’intero mondo al di fuori di essa. Quando Anguilla torna al paese e fa il bilancio di quanto è restato e di quanto è mutato, ritrova una realtà in cui convivono affetti, sapienza e superstizione: il Belbo è il paese dei falò nelle feste che “svegliano la terra”. L’irruzione della guerra e della Storia sembra non aver intaccato l’immobilità del mondo rurale, dove tutto si compie in una dimensione ciclica, in una ininterrotta ripetizione. La terra, le colline, le stagioni sono sempre le stesse, immutate e immutabili. In questo viaggio nelle profondità della memoria, nel tentativo di recuperare la dimensione favolosa dell’infanzia, Anguilla è accompagnato dall’amico Nuto, una guida saggia che richiama il Virgilio dantesco, simbolo di ragione e maturità. Nuto scioglie i dubbi di Anguilla ma, allo stesso tempo, tenta di proteggerlo da orribili verità che quella terra cela tra le nere zolle, verità sepolte insieme ai morti, a una generazione che si è estinta durante l’assenza di Anguilla.

In questo romanzo si scopre l’aspetto macabro dell’esistenza contadina, dell’orrore della miseria che conduce alla pazzia e alla violenza, l’angoscia smisurata di donne che come Silvia muoiono dissanguate per un aborto, di menti grette come quella di Valino che uccide a cinghiate la figlia e dopo aver appiccato fuoco alla casa con la moglie, la figlia e le bestie dentro, si impicca. E Santa? Che fine ha fatto la bella Santina, che Anguilla ricorda bambina? “Cagnetta” e “spia” dei fascisti, come confessa a malincuore Nuto. Il ricordo dell’infanzia felice è rovinato dall’ultima pagina del romanzo, la descrizione del sacrificio di Santa, fucilata e bruciata: “A mezzogiorno era tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò”.

Il romanzo si chiude così, con l’odore del rogo del cadavere di Santina, ma, per un attimo, posando lo sguardo sull’ultima parola, ritorna l’immagine di quel falò dell’infanzia che Anguilla è tornato a cercare, che appartiene alle origini alle quali, prima o poi, si ritorna.

 
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