Zuppa inglese e Scuola digitale. Ma così questo è Ministero di Distrazione

Zuppa inglese e Scuola digitale. Ma così questo è Ministero di Distrazione
di Rosario COLUCCIA
6 Minuti di Lettura
Domenica 14 Gennaio 2018, 19:59
Di mestiere faccio il linguista. Dopo una pausa abbastanza ampia, la nostra rubrica ritorna, mantenendo la stessa formula introduttiva. La ripetitività è voluta, allude a una precisa intenzione dell’autore. Il segnalino comunica ai lettori che gli argomenti di cui trattiamo vengono considerati da un punto di vista particolare, che si propone di collegare costantemente la lingua ai fatti (vicini e lontani) e alla vita stessa. La lingua è facoltà esclusiva dell’uomo, serve per elaborare, fissare e comunicare il pensiero; le altre specie viventi non posseggono questo strumento straordinario, noi esseri umani siamo per questo in una condizione di enorme vantaggio. Con la lingua superiamo i limiti della nostra fisicità individuale, conosciamo noi stessi ed entriamo in rapporto con il mondo, ci collochiamo in una dimensione privilegiata. Se sappiamo esprimere chiaramente e con rigore logico i nostri pensieri, se capiamo a fondo quello che ascoltiamo e quello che leggiamo, noi dimostriamo maturità e aumenta la democrazia complessiva della società.

Ecco perché, a pieno titolo, l’educazione linguistica (l’allenamento a un uso consapevole e corretto della lingua) è centrale nella scuola e nell’università. Consulto il sito del «MIUR. Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca» (www.istruzione.it). Appare una pagina intitolata «la buona Scuola digitale», che illustra il «Piano Nazionale Scuola Digitale». Si tratta di un documento del Ministero che punta a innestare nella scuola italiana una strategia innovativa, adeguando il sistema educativo alle nuove situazioni dell’era digitale. Un tentativo, in linea di principio assai opportuno, di misurarsi con la sfida del tempo in cui viviamo.

Il «Piano Nazionale Scuola Digitale» è un documento complesso: mi auguro che in tutt’Italia, dal Nord al Sud, i docenti abbiano possibilità e voglia di discuterlo a fondo, in tutte le sue implicazioni. Non sarebbe tempo perso, le cose serie richiedono attenzione. I professori sono i protagonisti fondamentali di ogni processo che coinvolge la scuola. Se non saranno convinti della bontà e dell’utilità del «Piano Nazionale», non esiste nessuna possibilità che le finalità di quel documento, quali che siano, possano tradursi in esperienze concrete.

Il piano prevede evolute modalità di connessione alla rete, attrezzature e ambienti idonei a forme di didattica digitale negli oltre 33.000 plessi scolastici del territorio nazionale (326.000 aule, a tanto ammonta il patrimonio dell’edilizia scolastica). A questo ambizioso sforzo strutturale si collega la prevista digitalizzazione amministrativa, con la progressiva dismissione delle pratiche e degli archivi cartacei. Ma, soprattutto, il miglioramento delle strutture logistiche e informatiche è funzionale al raggiungimento di obiettivi sostanziali: elevare la qualità della formazione del personale insegnante, fare buona didattica con buoni contenuti, rafforzare le competenze e l’apprendimento degli studenti. In poche parole: una scuola migliore.

Non sono un economista, non so valutare se le risorse previste siano sufficienti. Né so giudicare se la macchina amministrativa dello stato possegga le necessarie doti di efficienza e di capacità operativa. Né posso garantire che non ci siano sprechi o ruberie di malintenzionati. Per tutto questo posso solo dire: vedremo i fatti.

Senza aspettare, fin d’ora parliamo invece di qualcosa che possiamo verificare subito, a partire dalla veste formale del documento. Requisito fondamentale di un testo è farsi capire facilmente. Se questo è l’obiettivo primario, è difficile essere d’accordo con l’uso ripetuto nel documento di espressioni come «Stakeholder Club per la scuola digitale», anche se l’opportuna chiosa di p. 9 spiega che si allude a «un partenariato permanente che renda la nostra scuola capace di sostenere il cambiamento e l’innovazione» (più spesso senza commento, pp. 115, 116, 120, 132, 137). L’Azione #20, «Girls in Tech & Science» punta a favorire lo studio di discipline tecniche e scientifiche da parte delle studentesse, ancora numericamente inferiori rispetto ai colleghi maschi. L’inaccettabile divario nasce dalla constatazione che «le nostre ragazze, più delle loro coetanee in altri paesi, vivono in un contesto che porta a minori aspettative di risultato e quindi di carriera negli ambiti collegati alle scienze, alla tecnologia, all’ingegneria e alla matematica (le cosiddette discipline STEM), sebbene i test di ingresso e gli esiti di apprendimento dimostrino ampiamente il contrario» (p. 89). Giusto. Ma perché ricorrere all’inglese per etichettare un’iniziativa del tutto condivisibile, per di più riferita a un problema squisitamente italiano? Chiarisco. La E della sigla STEM (con cui si indicano gli «ambiti collegati alle scienze, alla tecnologia, all’ingegneria e alla matematica») deriva dalla parola inglese «Engineering», non dall’italiano «Ingegneria». Analogo processo a pp. 30 e 84: qui ricorre STEAM, acronimo di «Science, Technology, Engineering, Arts & Maths» (con l’aggiunta di «Arts» al precedente). Gli acronimi dall’inglese non facilitano la comprensione immediata dei contenuti. Spesso noi italiani non ci badiamo. Non siamo stati attenti con la sigla dell’AIDS (è entrata nella nostra lingua nel 1982), facendo nostra la sequenza sintattica inglese «Acquired Immuno-Deficiency Syndrome». Di conseguenza, non molti parlanti sono in grado di sciogliere correttamente la sequenza originaria. Invece avremmo potuto scegliere di definire quella affezione virale SIDA «Sindrome da Immuno-Deficienza Acquisita», come hanno fatto i francesi che dicono le SIDA «Syndrome d’Immuno-Déficience Acquise» e gli spagnoli che dicono el SIDA «Síndrome de Inmuno-Deficiencia Adquirida».

Andiamo avanti. Con difficoltà, solo ricorrendo ad altre fonti, ho appreso che LMS «Learning Management System» (pp. 18 e 97) è la piattaforma applicativa (o insieme di programmi) che permette l’erogazione dei corsi in modalità e-learning (l’inglese, ancora una volta; insegnamento a distanza, direi in italiano). Probabilmente l’esplicita traduzione italiana di BYOD «Bring Your Own Device» (pp. 41, 47, 133, 136) con ‘porta il tuo dispositivo’, mi avrebbe aiutato a capire appieno che quella Azione sollecita «politiche per cui l’utilizzo di dispositivi elettronici personali durante le attività didattiche sia possibile ed efficientemente integrato» (p. 47).

Agli occhi di alcuni l’inglese può apparire seducente o offrire l’apparenza di un tecnicismo superiore (specie se si riferisce a pratiche sviluppate anche fuori dai confini nazionali). Ma nel nostro caso è utilizzato con frequenza eccessiva e con formulazioni troppo tecniche, rinunciando senza motivo ai possibili equivalenti italiani. Come risultato, non ne viene favorita la comprensione piena di questo importante atto ministeriale, che per diventare operativo e per essere applicato richiede condivisione da parte di chi opera nel mondo della scuola (professori e studenti) o agisce nei paraggi della stessa (famiglie). Insomma, finché è possibile, #dilloinitaliano, come recita la petizione di qualche anno fa (che tanto successo ha avuto) che invitava il governo italiano, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese a usare un po’ di più la nostra lingua, evitando i forestierismi (a meno che non fossero assolutamente indispensabili). E “usa bene l’italiano” (potremmo aggiungere), badando anche a particolari apparentemente minimi e tuttavia da rispettare senza deviazioni e senza indulgenze. Se non ho contato male, nel testo del MIUR ricorre tre volte la grafia corretta «perché» (con l’accento acuto) e undici volte quella sbagliata «perchè» (con l’accento grave). Siamo nella scuola, l’uso corretto della lingua è fondamentale. Non possiamo permetterci distrazioni.

I rilievi formali che ho appena espresso mirano a collaborare, non a censurare in maniera preconcetta. Il «Piano Nazionale Scuola Digitale» è importante, pone questioni pressanti e lo fa con un’impostazione aperta e a mio parere corretta. Fin dagli inizi, il documento spiega che occuparsi solo di digitalizzazione, invocare la tecnologia fine a sé stessa, non è sufficiente: i problemi della scuola non si risolvono se concentriamo l’attenzione su questi aspetti trascurando la più ampia dimensione culturale. Non basta il semplice richiamo alle opportunità della tecnologia, all’acquisizione e all’utilizzazione di strumenti moderni. Il digitale e la rete, di per sé, non sono sufficienti. Puntiamo l’attenzione sui contenuti, sull’uso mirato e intelligente delle nuove opportunità, sul rapporto umano tra docente e discente, che prevale su qualsiasi innovazione.

Ne parleremo la prossima volta.

 
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