Cataldo Motta, la nuova Scu e i possibili scenari: «Uno squarcio sugli intrecci tra economia e mafia»

Cataldo Motta
Cataldo Motta
di Alessandro CELLINI
4 Minuti di Lettura
Giovedì 20 Settembre 2018, 11:08 - Ultimo aggiornamento: 11:11
Quando per la prima volta nel Salento si affacciò l'ipotesi di una vera e propria organizzazione mafiosa, lui c'era. Anzi: fu proprio Cataldo Motta, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, a dare l'input a una nuova forma di lotta alla criminalità, a mettere insieme - lui e gli altri magistrati e investigatori che da anni lavoravano sui casi - tutti i tasselli di un puzzle per arrivare a dire che sì, la mafia nel Salento esiste. E numerose sentenze - la prima, quella del maxiprocesso, arrivò nel 1991 - lo hanno poi confermato. L'ex procuratore capo di Lecce, andato in pensione nemmeno due anni fa, è la vera memoria storica della lotta alla mafia: per questo le ultime novità non possono lasciarlo indifferente.
Dottore Motta, oggi è Tommaso Montedoro a scegliere la strada della collaborazione. In passato altri nomi noti della Sacra corona unita hanno intrapreso lo stesso percorso. Perché?
«Dopo il primo maxiprocesso furono moltissimi a voler collaborare. Le condanne erano state particolarmente rilevanti, e proprio per questo motivo molti elementi di spicco si pentirono. Ritengo che le collaborazioni migliori si siano avute proprio all'indomani di quella sentenza. E cominciarono a parlare proprio i vertici: Vincenzo Cafiero, Cosimo Cirfeta, Maurizio Cagnazzo».
Con Montedoro, personaggio che si è mosso spesso tra affari palesemente illeciti ed economia borderline, si può aprire un nuovo capitolo nella lotta alla Scu?
«Quello di Casarano e dintorni è un territorio sul quale avvengono fatti particolarmente interessanti. Ecco perché un'eventuale collaborazione sarebbe la benvenuta. Sempre che si tratti di collaborazione effettiva e approfondita. Bisogna infatti valutare tante cose, c'è un'attenta attività di riscontro da fare, per evitare di prendere in considerazione indicazioni false o errate. Ma una cosa è certa: il pentimento di Montedoro potrebbe rivelarsi molto importante».
Perché?
«Permetterebbe di andare ad analizzare un clan mafioso impegnato in attività che conosciamo poco, come quelle finanziarie ed economiche. Penso al controllo dei supermercati o delle discoteche. Tutto quell'ambito che non voglio chiamare lecito, perché lecito non è, ma che è vicino a una mafia economica, che fa investimenti nelle attività produttive».
In che contesto si inserisce il clan Montedoro?
«Noi avevamo diviso il territorio in base alle aree di interesse dei diversi clan. E quindi in queste macro aree avevamo individuato il clan Tornese, quello di De Tommasi, quello di Rizzo. E nell'ambito di questi, vicino al gruppo che si rifà a Tornese c'è quello di Montedoro. I Tornese hanno base a Monteroni ma estendevano il proprio controllo su un territorio molto vasto».
Si è sempre detto, parlando della Sacra corona unita, che si tratta di una mafia diversa dalle altre, non ancora in grado di radicarsi sul territorio e ottenere consenso sociale. È ancora così?
«No. E il volto della Scu è cambiato già da un po' di tempo. Quando otto anni fa arrestammo il boss mesagnese Massimo Pasimeni e la moglie, ci accorgemmo che tutto il paese era solidale con gli arrestati. E successivamente il pentito Ercole Penna (braccio destro di Pasimeni, ndr) ci rivelò che il clan era molto benvoluto dai mesagnesi: la sua collaborazione fu utile perché ci diede molte indicazioni su come l'organizzazione mafiosa fosse ormai benaccetta. Addirittura, notammo come non ci fossero quasi più richieste estorsive intese in senso classico, ma spontaneamente alcuni commercianti offrivano regali e omaggi al clan. E questo è un fatto molto grave, è l'ultimo step prima che si arrivi a un punto di non ritorno».
Si è raggiunto, nel Salento, quel punto di non ritorno?
«A macchia di leopardo. Il consenso alla Scu non è diffuso su tutto il territorio in maniera omogenea».
Quali strade deve intraprendere, oggi, la lotta alla mafia salentina?
«Bisognerebbe prima di tutto mettere sul chi vive i cittadini, spiegare loro che ci si dovrebbero astenere da comportamenti di questo genere, di vicinanza e assoggettamento al clan mafioso locale. L'associazione mafiosa, oggi, c'è ancora; è strutturata in maniera diversa dal passato, con clan composti da poche persone che agiscono in maniera sommersa. E c'è gente che si è rivolta ai mafiosi, ad esempio, per recuperare i propri crediti vantati nei confronti di debitori riottosi. Ecco, questa è la sconfitta della giustizia. Bisogna far capire ai cittadini che rivolgersi a un mafioso significa dare legittimazione alla presenza di queste persone nella società. Ma si dovrebbe anche evitare toni troppo trionfalistici, sostenere che la Scu non c'è più ed è stata sconfitta: perché così non è certamente. La criminalità sembra come scomparsa dalla vita di tutti i giorni. Ma non è così: è una strategia ben precisa. E per questo bisogna stare ancora più attenti».
© RIPRODUZIONE RISERVATA